ARTE
E SCIENZA DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE
di Giuliana Nataloni (PG), Psichiatra,
Psicoterapeuta, Musicoterapeuta, Arteterapeuta
La comunicazione non verbale è un valore universale
dell’umanità: tutte le forme di relazione che l’uomo instaura nel
corso
dell’esistenza, con se stesso, con gli altri esseri umani, con il mondo
naturale, fino al suo rapporto con la divinità, sono permeate di non
verbale. Anche nel linguaggio parlato e scritto, il contenuto extra-verbale ha
un potere comunicativo ed emotivo addirittura superiore alle parole
stesse. Le diverse forme artistiche - musica, pittura, scultura,
danza, etc.-, organizzate in complessi codici comunicativi (le tecniche dei
linguaggi artistici), rappresentano il più evidente fenomeno di comunicazione
non verbale delle emozioni. Lo studio della comunicazione non verbale nelle
arti terapie si trova di fronte all’arte, come processo creativo non
ripetibile, e alla scienza in quanto processo osservabile, spiegabile,
riproducibile e verificabile.
La musicoterapia e le altre
arti terapie, come forme di relazione attraverso la comunicazione non verbale,
coniugano la potenzialità di espressione
dei vissuti emotivi attraverso i linguaggi artistici con i parametri della
scientificità, finalizzati alla cura della persona e alla qualità della sua
vita. Vediamo ora di analizzare la comunicazione non verbale nel suo duplice
aspetto di scienza ed arte.
Neurofisiologia della
comunicazione non verbale
Le strutture anatomiche
deputate alla comunicazione non verbale sono costituite da:
- Amigdala, struttura arcaica del
cervello che ha sostanzialmente lo scopo
di preservare l’organismo dal pericolo e di farlo con prontezza. Essa è
responsabile della cosiddetta “generalizzazione della risposta” a qualunque
stimolo provochi un’emozione.
- Corteccia prefrontale: area responsabile
della discriminazione della risposta, che opera un compromesso tra l’impulso
irrazionale iniziale dell’amigdala e l’adeguamento della risposta successivo.
La corteccia prefrontale ha anche la funzione di discriminazione sensoriale
analitica.
- Sistema libico, corteccia entorinale
dell’ippocampo: svolge la funzione di integrazione, associazione ed
elaborazione delle differenti modalità sensoriali (sinestesia) (Citowic,1988,
1989).
- Sistema nervoso autonomo simpatico, che
innerva ghiandole, cuore, polmoni e visceri ed è innescato da uno stato di
attivazione emotiva.
- Ipotalamo, nucleo accumbens: è la struttura
coinvolta nei comportamenti di gradimento, altrimenti detti “circuito del
piacere”.
Emozioni e sensopercezione
L’espressione di un’emozione
si realizza prevalentemente attraverso modalità non verbali, cioè tono della
voce, mimica, atteggiamento, distanza, gestualità. Il tono riguarda la sonorità
delle espressioni dell'individuo e quindi l'intonazione, il ritmo, ma anche il
sospiro o il silenzio; con mimica intendiamo
tutto quello che si può osservare sul viso di una persona; per
atteggiamento possiamo intendere
la postura dell'individuo ed anche i movimenti che la modificano; distanza è quella che ci separa dagli altri o
i movimenti per regolarla; nella gestualità
comprendiamo tutti i gesti delle braccia ed alcune azioni riconoscibili come
"gesti“. Essi sono segnali estremamente importanti sia in presenza che in
assenza della comunicazione verbale. Spesso infatti sono utilizzati come codici per “controllare” la congruenza e
la veridicità della comunicazione verbale. Basta pensare, come esempio, alle
manifestazioni somatiche che si accompagnano alla comunicazione di una bugia.
Nonostante il contenuto verbale, es.: “Non sono stato io”, la persona può mostrare
disagio attraverso la sudorazione, il rossore in viso, l’incapacità di
sostenere lo sguardo, i movimenti involontari di parti del corpo, etc. L'antropologo
e psicologo Albert Mehrabian (1971) ha stabilito che solamente il 7% di tutte
le informazioni che ci arrivano da un discorso passa attraverso le parole; il
restante, che è comunicazione non verbale, si divide in: 38% che ci perviene
dal tono della voce e 55% che arriva dai segnali di mani, braccia, gambe, piedi
etc. Diversi sono gli obiettivi di un approfondimento della conoscenza della
comunicazione non verbale. Innanzitutto l’uso consapevole del linguaggio non
verbale permette di affinare le proprie capacità comunicative e
contemporaneamente di interpretare più chiaramente il messaggio dell’interlocutore.
Ma soprattutto offre la possibilità di “allargare” la
conoscenza di sé e la capacità di lettura e interpretazione del proprio mondo
emotivo.
I primi studi sistematici al riguardo furono svolti da un gruppo di ricercatori per
il Mental Research Institute di Palo Alto in California (USA) tra gli anni '50
e '60. Il gruppo, guidato da Don Jackson e sotto la guida di Gregory Bateson
era stato ingaggiato per degli studi sulla schizofrenia, ma sviluppò anche
delle interessanti teorie sulla comunicazione che ora vengono universalmente
riconosciute come i caposaldi di questa nuova disciplina. In particolare
Jackson, Watzlawick, Bavelas scrissero "Pragmatica della comunicazione
umana" nel 1967, in cui approfondirono i vari aspetti della
comunicazione, a partire dall'affinamento della capacità di ascolto allo studio
dei segnali non verbali. Watzlawick (1967) sostiene che ogni comunicazione
avviene contemporaneamente su due piani:
quello del contenuto e quello della relazione. Il linguaggio verbale e quello
non verbale veicolano rispettivamente livelli differenti di messaggio. Il
linguaggio verbale, le parole, veicolano il messaggio di informazione, il
contenuto (es. “sono arrivato”), mentre
il linguaggio non verbale porta il messaggio di relazione, cioè ciò che provo
realmente nel comunicare quelle parole (es. felicità oppure impazienza oppure
rabbia, etc.). Dalla percezione inconscia della congruenza o meno tra i due
aspetti, verbale e non verbale della comunicazione, sempre interdipendenti tra
di loro, ne risulterà la qualità della relazione. Se saranno congruenti la
relazione risulterà essere basata su fiducia, chiarezza, sicurezza e permetterà
la capacità di orientarsi. Nel caso invece di una contraddizione tra contenuto
verbale e non verbale, la relazione risulterà ansiogena, svilupperà disagio,
insicurezza, disorientamento, senso di pericolo.
Se consideriamo dunque i
segnali non verbali come punti cardinali per orientarci nel complesso dedalo
delle relazioni umane, dobbiamo ora soffermarci sugli aspetti più strettamente
legati alla sensorialità. I sensi
rappresentano gli strumenti con cui mappiamo il mondo, sia esterno che interno.
Fin dai primi momenti della nostra esistenza, i sensi raccolgono ed elaborano
le informazioni materiali e psichiche in complesse ed inedite costruzioni
architettoniche: la personalità di ogni individuo, unica ed irripetibile. Ma in
questa sede vogliamo accennare ad una lettura insolita della sensorialità: il
senso dei sensi, cioè il correlato psichico della senso-percezione. Ad ogni
canale sensoriale è associato un modo di dire popolare. Ricordiamo a proposito
che secondo Freud, attraverso la battuta scherzosa, passano verità altrimenti
inaccettabili a dirsi . Il motto di spirito è una delle vie attraverso cui
l’inconscio fa capolino alla coscienza (Freud 1905). Analizziamo ora qual è nel
gergo comune il significato psicologico dei sensi. Gusto: “avere gusto” si
riferisce alla sensibilità estetica, alla raffinatezza delle scelte di vario
tipo. Tatto: “trattare con tatto” indica garbo, delicatezza nella relazione. Vista:
“vedere giusto” allude alla capacità di lungimiranza e di messa a fuoco della
realtà. Olfatto: “avere naso” significa intuizione, capacità di trarre
dall’intuito informazioni precise e mirate sul mondo circostante.Udito:
“tendere le orecchie” fa riferimento alla facoltà di sentire le emozioni nelle
loro intensità e qualità.
Arte e Medicina
L'uso delle arti come
strumento terapeutico ha preceduto la medicina vera e propria. Pensiamo alla figura dello sciamano, l’uomo-medicina,
che attraverso l’uso della musica, come della danza e delle maschere, libera
l’individuo dagli spiriti maligni che ne hanno turbato l’equilibrio di salute. Nel
mondo classico le arti terapie emersero dal mito, basti pensare al mito di
Orfeo. Musica, canto, poesia, teatro e danza rappresentavano la più alta
espressione di un equilibrio tra armonia e salute. Nella tragedia greca,
attraverso il concetto di katharsis, le emozioni trovavano una via per essere
comunicate, condivise e abreagite, per dirla in termini freudiani, con il
conseguente ristabilirsi dell’omeostasi psico-fisica e dello stato di salute. Successivamente,
nel Rinascimento la medicina si avviò verso l’organizzazione scientifica del
sapere, per mezzo dell’osservazione e dell’esperimento. La distanza tra arti
terapie e scienza medica si accrebbe notevolmente, fino ad arrivare ad una
radicale divergenza. Solo verso la fine dell’800 Freud, gettò le basi per la
costruzione di quel ponte di collegamento tra mente e corpo, che in Occidente,
da Cartesio in avanti, tanto si erano distanziati. E’ dei giorni nostri
l’osservazione di Hillman, secondo cui “il divorzio tra emozione e ragione è di
così vecchia data e ha lavorato talmente a beneficio della ragione, che
l’emozione è diventata un concetto peggiorativo di irrazionalità al limite
della follia”(Matte Blanco, 1975).
Attualmente, nell’ottica
della salute intesa come equilibrio bio-psico-socio-spirituale dell’individuo,
si aprono nuove prospettive d’integrazione tra le arti terapie e la scienza
medica. Grazie infatti alle nuove frontiere del sapere medico, in primis alla
psico-neuro-endocrino-immunologia (Scapagnini 1989), le connessioni biochimiche
tra psiche e corpo vengono sempre più
riconosciute e dimostrate.
Ma vediamo ora qual è il rapporto
esistente tra Arte e Arti terapie.
Arte e Arti Terapie
La riflessione sul rapporto
che intercorre tra arte e arti terapie, ci porta a sottolineare alcune
importanti osservazioni. Innanzitutto i due termini non sono sinonimi. Se è
vero che l’artista comunica attraverso la sua opera artistica, ciò non
significa che questo rappresenti necessariamente un atto terapeutico. Nelle
arti terapie infatti, il fattore terapeutico è determinato dalla relazione tra
il terapeuta, esperto in linguaggi artistici, ed il cliente, attraverso il
mezzo artistico (musica, arte, danza, etc.). In primo piano vi è quindi la
relazione terapeutica tra le due persone, che avviene grazie al medium
artistico. Nell’Arte, invece, la centralità è nel prodotto artistico, non nella
relazione tra artista e fruitore. Un’ altra fondamentale differenza consiste
nel fatto che nelle Arti terapie non sono richiesti l’aspetto estetico, la
tecnica, la logica, lo stile. Il prodotto trae valore dal suo contenuto emotivo
ed espressivo, in funzione della relazione con il terapeuta o con il gruppo,
nel caso di terapie di gruppo.Le Arti terapie non producono arte, ma traggono
un valore terapeutico dal processo creativo.Il processo creativo permette la
mobilitazione delle risorse interne insite in ogni individuo, potenzialmente
sane e risanatrici di qualsiasi squilibrio, sia fisico che psichico. Nelle Arti
terapie la comunicazione delle emozioni, contemporaneamente velate ed espresse
dal linguaggio artistico, viene letta nell’ambito della relazione transferale. Quindi,
possiamo concludere che Arte ed Arti terapie hanno in comune soltanto il
processo creativo, la comunicazione e il linguaggio artistico.
L’Arte dello scienziato
Albert Einstein è ritratto
in alcune foto mentre suonava il violino. La sua famosa frase “imagination is
more important than knowledge”, può esserci d’aiuto nel tentativo di dimostrare
quanta importanza per la scienza abbia il processo creativo. La fantasia,
l’immaginazione, sono processi creativi della mente che trasportano il nostro pensiero
al di là della razionalità e del conosciuto. Come si potrebbe scoprire qualcosa
di nuovo se non si avesse la possibilità di andare oltre ciò che è già noto?
Come si potrebbe allargare la conoscenza se non si avesse il coraggio di
“osare” verso l’irrazionale? Nessuna scoperta sarebbe stata fatta senza lo
stimolo dato dall’emozione dell’ignoto. Lo scienziato fa proprio questo: si
emoziona con le sue fantasie, le segue e persegue tutta la vita, contro ogni
pensare codificato, fino a quando non riesce a trasformarle e a tradurle in
dimostrazioni scientifiche. Inizialmente Einstein costruì il suo paradigma
dell’universo a partire da segni non verbali, “alcuni visuali e altri di tipo
muscolare”. Come egli stesso scrisse, nel 1945, ad un collega: “Sembra che le
parole e il linguaggio scritto o
parlato, non abbiano alcuna funzione nei miei meccanismi cognitivi. A quanto
pare, le entità psichiche che costituiscono gli elementi del pensiero sono
certi segni e immagini più o meno chiari, che possono essere ‘volontariamente’
riprodotti e combinati.” (Einstein, 1988). Solo
in una seconda fase, dopo un lungo e accurato lavoro di traduzione delle
sue creazioni non verbali in “parole convenzionali e altri segni”, lo
scienziato era in grado di comunicarle al mondo razionale della scienza.
La Scienza dell’artista
Andiamo ora ad illustrare
una situazione speculare a quella sopra riportata: l’atteggiamento scientifico
di una grande musicista, quale Arnold Schönberg. In una lettera a Kandinsky del
1911, Schönberg dice: “L’arte appartiene all’inconscio! Bisogna esprimere se
stessi! Esprimersi con immediatezza! Non si deve esprimere il proprio gusto, la
propria educazione, la propria intelligenza, il proprio sapere o abilità.
Nessuna di queste qualità acquisite, bensì quelle innate, istintive… Solo la
creazione inconscia, che si traduce nell’equazione forma=manifestazione, crea
forme vere… Ma chi è in grado di ascoltare se stesso, di riconoscere i propri
istinti, di approfondire ogni problema attraverso una riflessione personale,
non ha bisogno di una simile zeppa. Non è necessario essere un pioniere per
lavorare così, ma un uomo che si prende sul serio, e che così facendo prende
sul serio il vero compito dell’umanità in ogni campo dello spirito e dell’arte:
comprendere ed esprimere ciò che si è compreso!!! Ne sono profondamente
convinto!” (Schönberg e Kandinsky,
2002). In queste parole possiamo notare come la preoccupazione del musicista
fosse quella di svolgere un serio e profondo lavoro di comprensione del proprio
animo, prima di poterlo esprimere. Comprendere a fondo un mondo nuovo,
sconosciuto, riuscire a darne spiegazioni, dimostrazioni che permettano di
condividerlo con altri, approfondire e tentare di dare soluzioni e
interpretazioni ai problemi è un approccio decisamente scientifico.
Allarghiamo ora le nostre
riflessioni, per introdurre nel rapporto tra arte e scienza finora trattato un
altro fondamentale aspetto della vita dell’essere umano: la spiritualità.
Un incontro tra Scienza e
Spiritualità
Se arte e scienza hanno
percorso in passato strade divergenti, il rapporto tra quest’ultima e la spiritualità sembra essere ancora più
distante. Anzi, le posizioni sono spesso risultate piuttosto antitetiche; basti
ricordare le molteplici diatribe tra scienza e religione su questioni che non
tratteremo in questa sede. Vorremmo invece riportare un inaspettato evento in
merito. Al Congresso della Società di Neuroscienze, svoltosi a Washington
nel novembre 2005, è stato ivitato il Dalai Lama, al secolo Tenzin
Gyatso, la massima personalità buddista, premio Nobel per la pace 1989. Egli ha
tenuto un discorso sui possibili rapporti tra scienza e religione (buddismo),
che condividono la medesima ricerca della verità e comprensione della realtà.
Interessante e pertinente la citazione
riportata del fisico tedesco C. von Weizsaecker, uno dei
suoi primi insegnanti di fisica: “ Weizsaecker avvertiva che la scienza può
trarre grande beneficio indagando questioni solitamente considerate di
pertinenza delle discipline umanistiche”. Inoltre è stato menzionato il fatto
che la meditazione aiuta il cervello, nel senso che apporta favorevoli modificazioni
neuro-anatomiche. Un articolo di un quotidiano (La Repubblica, 2005) ha
riportato, insieme alla notizia di tale importante evento, i risultati di
alcune recenti ricerche scientifiche su meditazione e modificazioni cerebrali
- Università del Wisconsin
(dr. R.Davidson): l’abitudine alla meditazione produce cambiamenti duraturi nel
cervello (EEG).
- Massachusetts General
Hospital (dr.ssa S.Lazar): meditare allunga la vita (RMN).
- Università della
Pennsylvania: durante la meditazione il cervello perde il senso del tempo, con
effetto di riduzione dello stress.
- American Journal of Cardiology: la pratica
costante della meditazione riduce di un terzo le morti per problemi
cardio-vascolari.
Sulla base di tali
argomentazioni, descriviamo ora due
esperienze di utilizzo della musicoterapia come strumento professionale di
formazione e supervisione, nell’ambito della prevenzione.
MUSICOTERAPIA nella formazione
e nella supervisione del personale socio-sanitario. Due esperienze: la
formazione psicologica degli operatori oncologici e la supervisone degli
operatori della riabilitazione psico-sociale.
In termini generali, è ormai
dominio comune il fatto che una formazione permanente del personale costituisca
un elemento essenziale e imprescindibile della qualità del servizio. In ambito
sanitario sono previsti corsi di aggiornamento e riqualificazione sia del
personale medico, che paramedico in generale.Possiamo certamente considerare la
formazione permanente come un intervento di prevenzione primaria. In
alcuni ambiti, quali i due che
prenderemo in considerazione, quello dell’oncologia e quello della
riabilitazione psico-sociale, le tematiche emotive in gioco rendono le
categorie di operatori del settore particolarmente a rischio di burn-out
(Pellegrino, 2000). Ricordiamo che vivere a stretto contatto con emozioni
relative a contenuti come morte, condizioni terminali, realtà aliene,
cronicità, sovraccarica l’operatore in modo massiccio e lo espone ad uno stress
fisico e psichico di difficile gestione. Da qui la necessità di condividere ed
elaborare in equipe le emozioni che di volta in volta si attivano al contatto
con persone sofferenti di malattie oncologiche e psichiatriche gravi. La
formazione psicologica degli operatori oncologici
Da anni si parla di
psiconcologia, intendendo con tale termine tre aspetti: l’impatto psicologico
che la malattia ha sul malato e sui suoi familiari, le cause psicologiche che
rappresentano cofattori di insorgenza, decorso e prognosi della malattia,
l’impatto psicologico degli operatori che prestano il loro sevizio in questo
ambito (Catanzaro, 2003) Nel 2000 è nata la sezione Umbra della SIPO (Società
Italiana di PsicOncologia). L’equipe che la costituisce si occupa di assistenza
sul territorio, ricerca e formazione del personale medico e paramedico. Sono
stati organizzati in questi anni 7 corsi
teorico-esperenziali in psiconcologia, rivolti ad un numero chiuso (40) di
operatori, con lo scopo di affrontare le tematiche di quotidiana
esperienza e gli aspetti teorico pratici
che stanno dietro un intervento psiconcologico. A tale scopo per ogni annualità
è stata prevista un’area teorico-esperienzale di comunicazione non verbale
attraverso un mezzo artistico. Gli operatori oncologici hanno così potuto fare
esperienza diretta di tale parametro e della sua forza nella relazione
terapeutica. Pensiamo solo ad un esempio: quanto disagio viene trasmesso, in
modo non verbale, dal medico al momento della comunicazione della diagnosi?
Tale è la difficoltà che per tanto tempo si è preferito mentire al
paziente riguardo alla natura del suo
male piuttosto che affrontare una
comunicazione così terribile. Ma quanto si è comunicata, per lo più inconsapevolmente
la tragedia in modo non verbale? Abbiamo visto sopra cosa comporti
un’incongruenza tra messaggio verbale e non verbale in una comunicazione: la
relazione ne risulta danneggiata. Non è certo augurabile che tra il paziente e
il suo medico si instauri una relazione basata su ansia, sfiducia,
disorientamento, proprio in un momento di emergenza vitale come quello che la
malattia oncologica comporta. Attraverso esperienze di musicoterapia,
arteterapia, drammaterapia, visione di film a tema, i corsisti hanno preso
coscienza degli aspetti non verbali, troppo spesso negati, che caratterizzano
qualsiasi relazione, quindi anche quella d’aiuto. Nella tabella 2 sono
riportati titoli e conduttori delle
sessioni esperienziali tenute nei corsi di formazione permanente.
Bibliografia
• “Suoni e colori in oncologia”, Bracarda S.,
Catanzaro P., Nataloni G., Ragni L. (2000)
• “Musicoterapia in anestesiologia”, Ciacca
T. Nataloni G. (2000)
• “Esperienze di musicoterapia e
rilassamento”, Nataloni G. (2000)
• “Musica in un day-hospital oncologico: il
questionario di musicoterapia”, Nataloni G. (2001)
• “Un’esperienza di arteterapia”, Peciccia M.
(2001) “La poesia del mio lavoro”, Fubini F., Gatti G.(2001)
• “Dipingo il mio lavoro”, Peciccia
M.,Catanzaro P.(2001)
• “Musica del mio lavoro”, Nataloni G.,
Peciccia M.(2001)
• “Coreografia del mio lavoro”, Venezi M.,
Nataloni G.(2001)
• “Quadro d’insieme: esperienza d’
integrazione sensoriale”, Catanzaro P., Donnari S.(2001)
• Visione del film “L’eternità e un giorno”
Di T. Angelopulos e dibattito, Valencia-Reyes A., Donnari S. (2003)
• Visione del film “Magnolia” di P.T.Anderson
e dibattito, Albrigo D., Donnari S. (2004)
• Visione del film “Son Frère” di P. Chèreau
e dibattito, Minotti V., Donnari S. (2005)
• “Psicodramma musicale e plastico delle
relazioni infermiere-familiare-medico-paziente”, Nataloni G., Regni S. (2005)
• Visione del film “Le invasioni barbariche”
di D. Arcand e dibattito, Catanzaro P., Minotti V. (2006)
La supervisone degli
operatori della riabilitazione psico-sociale.
Tratteremo ora un altro
ambito in cui l’utilizzo della musicoterapia si è rivelato un efficace
strumento di relazione. Gli operatori della riabilitazione psico-sociale si
trovano a lavorare in condizioni di forte tensione: quotidiani sono i contatti
con situazioni di emarginazione, pericolo, emergenza e necessità di risposte
immediate. Le malattie psichiatriche croniche, quali le psicosi, richiedono un
costante supporto e adattamento alla
realtà, fornito proprio dagli operatori che prestano servizio nelle unità di
convivenza. Ma anche altre situazioni, quali quelle della tossicodipendenza,
dell’immigrazione, soprattutto quella clandestina, dello sfruttamento, della
prostituzione, richiedono la costante e diretta presenza di operatori esperti
dei vari settori. Il coordinamento di tale lavoro da parte di servizi, centri
di salute mentale, assistenti sociali e altre figure pubbliche, non è da solo
sufficiente a sollevare gli operatori dal carico emotivo accumulato nelle
situazioni sopra citate. Si rende quindi indispensabile uno spazio di
supervisione, in cui gli operatori possano esprimere ed elaborare le dinamiche
emotive, non solo coscienti, sviluppatesi sia nel rapporto con gli utenti, che
nel loro stesso gruppo di lavoro. A tal proposito, dal 2000, in collaborazione
con due cooperative sociali operanti nel territorio umbro, la supervisione
viene condotta con metodica mista, sia verbale che non verbale. In particolare,
l’applicazione di tecniche musicoterapiche, riferibili al modello Benenzon
(1997), si è rivelata estremamente valida per affrontare le dinamiche gruppali
più tipiche (attacco-fuga, dipendenza, accoppiamento) (Bion, 1971), che
maggiormente esponevano i membri del gruppo al rischio di burn-out. Tre sono i
gruppi di operatori con i quali è stato applicato il metodo di supervisione
mista verbale e non verbale
8 operatori unità di
convivenza (salute mentale)
5 operatori pronta
accoglienza per minori
3 operatori area
sfruttamento, emarginazione
Conclusioni
Considerando la
musicoterapia come un terreno di inscindibile intersezione tra aspetti di pertinenza della scienza (come
neuroscienze, psicologia, antropologia, etc.) e
aspetti più propri al mondo artistico, crediamo che questa disciplina
sia pienamente degna di appartenere ad entrambe le famiglie. Ci auguriamo che
il futuro della musicoterapia sia emblematicamente rappresentato dalla foto
sotto riportata, alla quale diamo il propizio titolo di “Musica e Scienza a
braccetto”.
In questa immagine, scattata alla
Carnegie Hall di New York, nell’aprile 1934, possiamo infatti
riconoscere Albert Einstein, che tiene sotto braccio Arnold Schönberg e il
pianista polacco Leopold Godowski.
Pubblicato in “Arte e
Scienza della comunicazione non verbale”, AA.VV., Musica tra neuroscienze, arte
e terapia (Collana Musicoterapia), Musica pratica, Torino, 2006.
DOVE
C’E’ FAMIGLIA C’E’ CASA
di Pellizzari Damiano, Psicologo, Psicoterapeuta
Un semplice modo per
conoscere meglio le relazioni adulto-bambino. Questo test permette di cogliere
alcuni aspetti importanti per la crescita di un bambino. Disegnando la propria
famiglia emergono sentimenti e situazioni non sempre esplicite o percepite
dall’adulto (timori, incertezze, paura di crescere ma anche gioie, amore per la
vita ecc…) ISTRUZIONI: si chiede al bambino di disegnare su un foglio la
propria famiglia. Mentre il bambino disegna il genitore/educatore farà
attenzione ai seguenti aspetti: la collocazione dei personaggi sul foglio, il
primo e l’ultimo personaggio disegnato, la vicinanza tra i personaggi, le cancellature,
l’omissione o l’aggiunta di qualche persona, l’espressione del volto dei
personaggi, le posizioni delle braccia, delle mani e delle gambe.
INTERPRETAZIONE
Va premesso che questo non è
un test diagnostico, permette piuttosto di fare ipotesi e promuove un
approfondimento delle relazioni famigliari. Per andare a fondo di eventuali
problematiche è necessaria la figura qualificata dello psicologo. Personaggio
al primo posto: generalmente rappresenta colui verso il quale il bambino prova
più ammirazione e cerca di prendere come modello. Se stesso al primo posto:
potrebbe esserci un egocentrismo non del tutto superato ed un legame ancora
molto forte con la famiglia dalla quale chiede attenzione ed affetto ma si
potrebbe trattare anche di un bimbo con buona autostima. Se stesso all’ultimo
posto: il bambino potrebbe avere scarsa fiducia nelle proprie capacità. Ha
bisogno di essere lodato e rassicurato. Esclusione di membri famigliari:
potrebbe indicare una sorta di rifiuto di quella persona, magari per gelosia o
timore che questo individuo (es. fratello o sorella) possa privarlo
dell’affetto dei genitori. Aggiunta di personaggi: potrebbe simbolizzare un
senso di momentanea solitudine, una carenza di affetto e di attenzioni che il
bambino cerca di compensare con personaggi aggiuntivi. Dimensione ridotta di un
personaggio: il bambino sminuirebbe quella persona forse perché la sente come
un potenziale rivale. Collocazione in disparte di un personaggio: indicherebbe
il mancato inserimento di questo soggetto nella famiglia o la difficoltà del
bambino a creare una relazione forte con lui. Cancellazione di un personaggio:
potrebbe esserci un senso di insofferenza del bambino verso se stesso o verso
un membro della famiglia (non necessariamente quello cancellato). L’insofferenza
potrebbe essere repressa per paura del giudizio altrui. Un personaggio di più
grandi dimensioni: potrebbe essere la persona percepita dal bambino come
dominante verso la quale mostrerebbe ammirazione oppure inibizione. Omissione
di braccia e/o gambe: rappresenterebbe la “punizione” che il bambino infligge a
chi percepisce come minaccioso. Esclusione di sé: il bambino potrebbe sentirsi
escluso, poco importante nel contesto famigliare e con poca fiducia nelle
proprie abilità. Se stesso in un sesso diverso: di solito in età puberale
potrebbe essere indice di una non completa accettazione/comprensione del
proprio corpo o genere sessuale. Membri famigliari in luoghi e occupazioni
diversi: il bambino potrebbe percepire una scarsa coesione famigliare e una inadeguata
comunicazione. Se viene disegnata la casa essa simboleggia il senso/bisogno di
famiglia. Famiglia disegnata in cornice: il bambino potrebbe risentire di una
educazione rigida dove molto è basato sull’ordine, sul controllo, sui doveri
ecc…Fermo rifiuto di disegnare la famiglia: manifesterebbe una scarsa
partecipazione del bambino alla vita di famiglia o uno scarso dialogo tra i
membri. Se il bambino disegna la famiglia utilizzando animali o altri simboli
al posto delle persone si potrebbe ipotizzare un disagio famigliare che il
bambino cerca di mascherare per non sentirne troppo il dolore.
IL
SUONO TRA ARTE E TERAPIA
di
Rocco Peconio e Palma D’Alessandro,
Pianisti, Musicoterapisti
La possibilità di offrire
adeguati servizi socio-riabilitativi in favore di una utenza differenziata per
età e situazione psico-patologica, ha spinto gli autori, musicisti e
musicoterapisti del Centro Studi “Il Manifesto Musicale” di Triggiano (BA) ad
attivare un programma abilitativo o
riabilitativo attraverso la Musica.
Il tutto attraverso un efficace protocollo di lavoro redatto in cooperazione
con diversi enti pubblici e privati quali centri di riabilitazione, Servizi di
igiene mentale, enti ospedalieri, A.N.F.F.A.S., scuole statali di ogni ordine e
grado.
Un accenno particolare è
opportuno rivolgere al lavoro di ricerca e sperimentazione svolto negli scorsi
anni presso il reparto di Neurologia dell’Ospedale Regionale Pediatrico
“Giovanni XXIII” di Bari con la supervisione della Dott.ssa Silvana Bitetto,
dirigente responsabile psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza per quanto
concerne il binomio Musica-autismo. L’attivazione dei Laboratori di
Musicoterapia prevede l’utilizzo dell’evento sonoro e l’uso controllato della
Musica per fini rieducativi e riabilitativi onde favorire lo sviluppo globale e
il processo di integrazione della persona in difficoltà. Ogni condizione
patologica, dalla ipoacusia neurosensoriale bilaterale alla cecità, dal
disturbo generalizzato di sviluppo alla
sindrome di Rett, così come la sindrome
autistica o la sindrome di Down, influenza la qualità di vita i bambini fin
dalla nascita o nei primi anni di vita, privandoli della capacità di stabilire
delle adeguate forme di adattamento e di comunicazione (Baron-Cohen, Balton
1992). Pur nella loro diversità, questi bambini sono accumunati da una
caratteristica comune che si evidenzia
nella straordinaria reattività al mondo dei suoni, una reazione legata
alle personali potenzialità e al quadro psicopatologico del bambino stesso.
E’ quindi doveroso ricordare
che ogni essere umano possiede una particolare sensibilità sonoro-musicale fin
dal concepimento, una sensibilità che nasce e si modella in funzione
dell’habitat culturale in cui si vive e migliora ulteriormente se educata in
maniera costante e creativa.
La “musicalità”
dell’individuo, riconoscibile nel ritmo respiratorio, nel battito cardiaco,
nella gestualità e nella voce cantata,
nasce come il risultato dell’esperienza umana legata ai fattori esterni
quali i bisogni primari di esplorare, conoscere, socializzare e quindi
comunicare. La letteratura ci insegna che le capacità musicali dell’essere
umano possono essere preservate anche in caso di anomalie e lesioni celebrali
e, per quanto concerne l’esperienza
della Musica nel settore della riabilitazione, i primi risultati attendibili
sotto il profilo clinico, si sono riscontrati nei casi di paralisi celebrali
infantili e precisi effetti della terapia del suono si sono verificati nei casi
di afasia sia nei bambini che negli adulti (Baron-Cohen, Balton 1992). Negli ultimi decenni, anche la sindrome autistica (DSM IV), massima espressione del
disturbo della comunicazione, diviene suscettibile di un intervento
riabilitativo e in esso viene sempre più integrato l’utilizzo di materiale
sonoro.. Secondo questa concezione, l’idea della riabilitazione e della terapia
si legano alla plasticità del cervello che si sviluppa se adeguatamente
sollecitato da stimoli sensoriali (inclusi quelli musicali). Si mira a
migliorare la qualità dell’apprendimento inteso come un processo attraverso il
quale, come conseguenza della pratica e dell’esperienza, si modifica il
comportamento. La Musicoterapia si integra in un progetto psico-educativo
globale dove le funzioni comportamentali e cognitive sono deteriorate (Crystal
ET.AL. 1989, Dalessio 1984, Swartz ET.AL. 1989). Nel campo dell’autismo, la
modalità esecutiva non è un percorso facile e scontato poiché l’eziologia di tale patologia non è
ben definita e la stessa definizione dell’autismo è spesso oggetto di equivoci
culturali.
La presa in carico di un soggetto affetto da
autismo infantile prevede un protocollo di intervento che:
• stabilisca un percorso musicale operativo;
• consideri la Musica come elemento cardine
del percorso riabilitativo;
• determini e garantisca al paziente il
raggiungimento di obiettivi a breve e
lunga scadenza;
• valuti il raggiungimento dei risultati.
Nella terapia musicale il
protocollo di lavoro che i musicoterapisti propongono viene pianificato in
accordo con le varie equipe medico-sanitaria di appartenenza. Per un corretto
programma di lavoro, i musicoterapisti vengono informati sulle linee di
condotta e le procedure; gli obiettivi a breve e a lungo termine della
musicoterapia devono quindi necessariamente concordare con i fini di trattamento
delle altre discipline. L’approccio al soggetto autistico si caratterizza per
il ruolo predominante assunto in tale contesto dalla Musica, la quale, grazie
al processo di risonanza corporea, scavalca inizialmente il processo cognitivo
al fine di stabilire un processo empatico tra il paziente e l’operatore. Per un
bambino affetto da disfunzioni neurosensoriali, la pratica musicoterapica
diviene un mondo di esperienza in cui poter usare le personali modalità di
espressione e comunicazione.L’intesità, il timbro, l’altezza, la durata, il
ritmo, la melodia e l’armonia
caratterizzano il suono e la Musica nei suoi differenti generi e stili
e, se opportunatamente organizzati, risultano essere fonte di valorizzazione
del bambino considerato nella sua globalità
costituita non solo da parti “malate” ma anche da parti “sane”.
Il musicoterapista suona osservando le
reazioni “aritmicamente disorganizzate” del bambino, non dimenticando le
condizioni esogene ed endogene che incidono sullo sviluppo psicofisico del
paziente, infine personalizzando il progetto terapeutico attraverso la scelta
delle strategie e degli strumenti da utilizzare.
La prima fase di accoglienza e di
accettezione è data dall’osservazione-ascolto e dalla conoscenza delle condotte,
degli interessi, delle necessità e delle preferenze del bambino.
La Musica nasce e prende forma nell’attimo
stesso in cui avviene l’ incontro bambino-musicoterapista. Attraverso la
tastiera di un pianoforte, con strumenti ritmici e melodici,con la voce e con
il movimento espressivo del corpo, il musicoterapista rispecchia i movimenti,
le capacità fonetiche o il semplice respiro del bambino artistico, al fine di
stabilire l’avvio o il ripristino della comunicazione non verbale. Il
rispecchiamento sonoro-musicale risulta
un primo momento di conoscenza e di accettazione da parte del musicoterapista
nei confronti del bambino. Nella pratica musicoterapica l’arte
dell’improvvisazione musicale in senso clinico si modifica in rapporto alle
risposte più o meno adeguate del bambino,
evidenziando così, la necessità di un atteggiamento flessibile del
musicoterapista per favorire la creatività del bambino, intesa come potenziale
educativo, e il suo bisogno di esplorare.
Fine primario dell’operatore
non è quello di interpretare la capacità “artistica” del bambino, piuttosto
sostenerlo ed aiutarlo ad esprimersi mediante la Musica. In questo caso la musica
diviene “atto comunicativo”. Le cellule ritmiche e melodiche proposte dal
musicoterapista facilitano una relazione positiva quando, mediante il fenomeno
della risonanza e attraverso l’improvvisazione musicale “in senso clinico”,
incoraggiano e facilitano la partecipazione attiva del paziente (Boxill E. H.
1991). La fase successiva all’avvio della comunicazione, richiede la
strutturazione del percorso musicoterapico: il musicoterapista diviene
“facilitatore” e “conduttore” delle strategie musicali e il paziente impara a
rispettare le regole dettate dal gioco musicale. In questa maniera egli
raggiunge una adeguata concentrazione, riduce le risposte caotiche e
disorganizzate e ottiene un maggiore controllo del proprio corpo. Attraverso la
partecipazione attiva alla pratica musicale strutturata su modelli cognitivi e
comportamentali, il team del Centro Studi “Il Manifesto Musicale” si propone
di:
• migliorare la comunicazione fatta prima di
suoni e dopo di parole;
• migliorare la capacità e la qualità di
ascolto;
• favorire e stimolare il contatto fisico e
oculare;
• acquisire la conoscenza dello schema corporeo
e migliorare il coordinamento oculo-manuale;
• ridurre le stereotipie,
• migliorare la memoria uditiva e visiva,
• favorire l’autonomia.
Le sedute di musicoterapia vede coinvolti i
genitori: la loro partecipazione, le loro voci e la loro unicità nel rapporto
con il bambino “eccezionale” (Nordoff-Robbins) durante l’attività musicale
diviene un sostegno sia per lo musicoterapista, sia per il bambino. Inoltre il
gioco musicale consente loro di conoscere un aspetto del proprio figlio, inteso
come “spartito musicale” ricco di pregevoli spunti da coltivare in un difficile
percorso di crescita.
(Articolo pubblicato negli
atti del Convegno del 1° Convegno di Musicoterapia “Filippo Smaldone” 27 – 28 Ottobre 2001 Bari: “MUSICOTERAPIA IN
PUGLIA: PERCORSI ED ESPERIENZE” -
Musicoterapia e neuropsichiatria infantile. Sez. Autismo)
IL
MONDO DEI GENITORI
di Patrizia Mattioli, Psicologa, Psicoterapeuta
I genitori come “base
sicura”
La genitorialità rappresenta
un aspetto rilevante della vita dell’individuo, un elemento importante della
propria identità personale. Lasciando per un attimo da parte le differenze
individuali, vorrei fare alcune considerazioni generali sull’essere genitori,
focalizzando l’attenzione su quegli aspetti che gli individui genitori hanno in
comune, e che sono all’origine di una sensibilità particolare che raggiunge
forse il suo apice in concomitanza con l’adolescenza dei figli. Attualmente il
ruolo di genitore, visto alla luce delle più recenti ricerche sull’attaccamento
e dei frequenti e veloci cambiamenti sociali, si configura meglio come “base
sicura” piuttosto che come educatore che favorisce l’interiorizzazione delle
regole, dei valori e dei principi del contesto sociale di appartenenza e questo
cambia sensibilmente l’atteggiamento dei genitori di oggi nei confronti dei
propri figli, rispetto a genitori di generazioni passate. L’estrema mutevolezza
del contesto e delle regole sociali costringono l’individuo adolescente di oggi
a non poter più seguire semplicemente l’esempio dei genitori, ma a dover
sperimentare di continuo in prima
persona quali sono i comportamenti che meglio risolvono le problematiche che
dovrà via via affrontare. L’individuo adolescente di oggi trova da solo il suo
modo, ed è più utile per lui sapere di poter contare sul sostegno dei genitori
in caso di difficoltà, piuttosto che fare riferimento a modelli comportamentali
precostituiti.
Un’identità inventata
Gli attuali genitori, si
trovano a vivere esperienze nuove rispetto al passato, cominciando dal fatto
che si trovano più facilmente soli ad affrontare la responsabilità della
crescita dei figli. I disagi personali vissuti durante la propria crescita, le
maggiori conoscenze della materia, i veloci cambiamenti sociali li hanno
persuasi della impraticabilità per i loro figli ,dei valori che hanno vissuto
su se stessi, della impossibilità di riproporre i modelli genitoriali che hanno
vissuti loro stessi nella famiglia di origine. Soprattutto la complessità
dell’esistenza nella società in cui apparteniamo rende necessaria una notevole
flessibilità e interscambiabilità di ruoli all’interno della famiglia: i padri,
tendono oggi a lasciare spazio in alcune delle aree che erano di loro esclusiva
competenza, dedicandosi a quelle funzioni affettive che in passato erano
delegate quasi totalmente alla figura materna. Le madri rinunciando in parte
all’esclusività del rapporto con i figli hanno maggiori possibilità di
realizzazione personale all’esterno della famiglia. Questo non senza difficoltà
da parte di entrambe le figure. I nuovi ruoli che si definiscono all’interno
della famiglia non implicano semplicemente che i genitori fanno cose diverse da
prima, ma anche che gli attuali ruoli non sono sostenuti da modelli di
riferimento con cui identificarsi come invece avveniva in passato. I genitori
di oggi risolvono il loro compito provando e riprovando, andando per tentativi
ed errori . I modelli dei propri genitori sono considerati ormai inadeguati.
Questo non avere punti di riferimento può avere riflessi negativi sul piano
dell’identità genitoriale che ne risulta più incerta. Un’identità genitoriale
incerta è certamente più fragile e vulnerabile e meno propensa a confrontarsi con il mondo esterno, che può anche essere
vissuto come pericoloso.
Genitori e insegnanti
I genitori attuali possono
entrare in relazione con il mondo esterno con un’ombra di diffidenza dovuta a
quella paura di essere definiti, criticati e disconfermati che un’identità (genitoriale) vaga sempre comporta.
Quest’ombra di diffidenza può entrare anche nella scuola e condizionare i
rapporti tra genitori e insegnanti e può essere superata solo se e quando il
genitore sente che il suo operato di genitore non sarà giudicato. Il giudizio
di un insegnante può essere all’origine di penose oscillazioni sul piano
dell’identità genitoriale, probabilmente per questo a volte gli insegnanti
vengono screditati e di fronte ad un loro giudizio critico il genitore tende a
schierarsi dalla parte del figlio proteggendolo, proteggendo in fondo anche se
stesso. Anche individui che godono di
sicurezza in altre aree personali, per esempio nell’area professionale, tendono
a rifiutare il giudizio perché magari interpretato e vissuto più su un piano
personale che non semplicemente riferito all’andamento della vita scolastica
del figlio. Il colloquio con un insegnante è un momento importante e delicato
in cui il genitore può sentire in ballo l’adeguatezza o inadeguatezza del suo
fare il padre o la madre. In generale il modo di essere dei figli può
rappresentare una specie di esame per i genitori, l’esame del progetto
affettivo/educativo portato avanti con loro fino a quel momento, in ultima
analisi la prova dell’adeguatezza/inadeguatezza della loro funzione
genitoriale. Evidentemente questo è più vero durante l’adolescenza dei figli e
ancora di più per quella che si vive a scuola.
I sentimenti verso i figli
Un’identità genitoriale
fragile è anche più sensibile agli allontanamenti, fisici e ideologici che
l’adolescenza impone. Il genitore spesso non si sa spiegare questi
allontanamente o ricorre a spiegazioni che mettono in dubbio le sue competenze:
il distacco adolescenziale del figlio equivale allora ad un venir meno del
proprio senso di capacità genitoriale. Questo perché i figli sono una parte di
sè, della propria identità. Per loro e con loro si provano emozioni forti,
belle e brutte. I figli possono essere fonte di orgoglio ma possono anche far
emergere sentimenti di inadeguatezza e incapacità mai focalizzati prima, che si
attivano ai primi segnali di allontanamento.
Anche per questo i genitori
di adolescenti provano emozioni ambivalenti: sono orgogliosi delle conquiste e
dell’indipendenza dei figli e nello stesso tempo soffrono perché sanno che non
potranno più proteggerli, che non saranno più il centro del loro universo, che
cominceranno a sentirsi esclusi dalla loro vita. Sono incerti e preoccupati per
gli esiti che la riorganizzazione adolescenziale porterà nella vita di tutti i
familiari. Si sentono spaesati perché l’autonomia del giovane lascia vuoto lo
spazio che prima era dedicato alla sua crescita, e su cui hanno sempre
investito molto.
LA
MASCHERA CHE SVELA
di Patrizia Battaglia (ROMA), Psicoterapeuta, Teatroterapeuta
Il modello di intervento a
cui ci riferiamo è quello mutuato dall’esperienza del Laboratorio
dell’Individuazione di P. Bartalotta che
pone in grande rilievo l’importanza e l’utilizzo della costruzione della
maschera che verrà poi indossata dai pazienti nell’azione scenica. L’intervento
prevede un percorso che si articola in quattro momenti: la preparazione fisica,
l’improvvisazione, l’espressività, la costruzione e rappresentazione della
maschera.
All’inizio di ogni seduta il
gruppo esegue semplici esercizi di riscaldamento, di espressione corporea, di
respirazione e vocalizzazione per poi passare al rilassamento. Tale momento ha
la funzione di dare al corpo una maggiore elasticità ed equilibrio, per
renderlo più permeabile agli impulsi dei personaggi e alle emozioni, e perché
diventi una via di liberazione dei contenuti inconsci. L’esperienza si avvale
di esercizi bioenergetici che propongono dei movimenti che aiutano ad avere una
nuova percezione del corpo e a mettersi in contatto con esso, alternando
movimenti lenti che permettono di sentire i vari distretti corporei e l’emozione
ad essi collegata, con movimenti più energetici, espressivi che rinforzano il
proprio senso di affermazione e permettono una canalizzazione
dell’aggressività. Nell’esercizio bioenergetico, a differenza della ginnastica
l’attenzione cosciente è rivolta a cosa quel movimento evoca: può succedere di
scoppiare a piangere soltanto respirando più profondamente oppure avere
difficoltà a tirar fuori la voce.
Gli esercizi di
improvvisazione, che consistono in esercizi mimici, sensoriali, di
concentrazione ecc., hanno lo scopo di stimolare la creatività e
l’immaginazione per “inventare” risposte e soluzioni creative alle situazioni
impreviste della vita e di iniziare i partecipanti all’azione scenica del
teatro. Gradualmente l’espressione diventa più complessa e totalizzante e si
svolge lungo un continuum che ha inizio con forme espressive più statiche come
la fiaba, la poesia, la pittura, il disegno ecc., fino ad arrivare alla
rappresentazione di momenti di rottura di elementi di staticità inconsce e comportamentali.
Dalla quotidianità si passa, dunque, a contattare le emozioni e il mondo
interiore. Il momento teatrale è caratterizzato dalla scelta di un testo e
dalla successiva costruzione della maschera, che rappresenterà lo specchio di
quelle vicende interne del paziente di cui lo stimolo teatrale ha risvegliato
il ricordo. Ogni incontro si conclude con la discussione ed elaborazione
collettiva di quanto emerso. Perché la maschera in un’esperienza di Teatro
Terapia? Come nell’antichità la maschera aveva una funzione trasformatrice, chi
la indossava ne assumeva i poteri, così nell’esperienza di Teatro Terapia la
sua costruzione permette di vivere quanto proiettato in essa e di contattare
quanto di nascosto è in noi. La maschera viene costruita con carta e colla su
un calco di argilla che lo stesso paziente ha modellato. Il lavoro con la
materia, la colla, la creta ecc evoca la regressione. Dall’antico contatto con
la materia, dal liquido amniotico al sangue, rimangono sensazioni confuse che
riposano nella memoria del corpo, per cui l’esperienza conduce ad una
dimensione arcaica. Dopo averla costruita e dipinta il paziente sale sulla
scena e rappresenta questo suo vissuto. Sulla scena il palco si illumina
lentamente, pronto ad accogliere la performance nella quale prende vita una
storia caratterizzata dalle emozioni evocate da quello schermo sul viso, che
allontana tutto ciò che è intorno e apre un varco tra se stessi, la maschera e
l’inconscio. Le maschere create sono sempre molto arcaiche, a volte
inquietanti; la fissità, nell’osservarle, crea una distanza che il movimento
riduce, riportandole ad una comunicazione che raggiunge anche l’esterno. Come
per magia tutto si muove, si anima ed interagisce. Le movenze sono eleganti,
lente, armoniche. Il corpo entra in sintonia con il volto coperto che ne rivela
le emozioni in quanto la maschera, in realtà, non è uno schermo alla
comunicazione ma esclusivamente alla comunicazione verbale. Infatti le parole
spesso creano uno scudo impedendo agli altri e a se stessi di percepire il
senso più profondo delle cose. Nei discorsi sul Tao di Lao Tzu il maestro
diceva che non è parlando che si comunica, con le parole ci si scarica . Ci si
veste di parole per tener lontano la comunicazione più autentica. Con la
maschera è difficile parlare, la voce esce distorta e rimbomba al suo interno,
come se ponessimo delle mani sulla bocca e parlassimo a noi stessi; infatti
spesso la voce non viene utilizzata. La maschera crea quindi uno schermo alla
parola, alla razionalità, crea un vuoto iniziale che stimola, che lascia il
campo alle emozioni e ai contenuti inconsci. Quando si sale sul palco, essa dà
sicurezza, spesso ci si guarda intorno, i movimenti sono lenti, la visibilità
un po’ diminuisce. Si sale con un progetto messo a punto dalla nostra mente
tenendo presente le emozioni vissute nella realizzazione e visione del
prodotto, ma questo progetto spesso ci abbandona, sono le emozioni a guidarci.
Interviene anche l’imbarazzo, per chi sta osservando, su quanto andiamo ad
esprimere. Alla fine ci si domanda perché è stata realizzata quella performance
e non un’altra? E’ l’inconscio che ha guidato, il piano iniziale è solo il
momento di apertura della rappresentazione che poi si trasforma in tanti
frammenti legati l’uno all’altro come in un divenire. Le azioni seguono in un
continuum anche quelle apparentemente più banali. La maschera viene indossata
utilizzando anche dei travestimenti che la maschera stessa suggerisce. Il
contatto con tutti questi oggetti non è sempre espressione di ciò che si vuole:
un velo posto sulla testa che cade suggerisce un’azione e poi un’altra: il
trovare dentro se stessi una soluzione attiva la creatività davanti ad un
imprevisto, libera l’espressività, permette di contattare le potenzialità,
rendendole visibili a se stessi e agli altri. Un velo che cade in una scena
teatrale non interrompe l’azione, viene ignorato; nella Teatro Terapia può
suggerire una ragnatela per esempio in un vecchio solaio e condurre ad una
fantasia imprevista. E così l’imprevisto non viene contro ma viene incontro per
condurre in un luogo dimenticato. La maschera copre il volto della persona ma
ne rivela altre qualità, quelle più nascoste, in essa vive, potenzialmente,
quanto può essere portato alla luce. E’ un prodotto individuale, irripetibile che
contiene le proiezioni dell’inconscio del suo autore. La sua forma, che evoca
una rotondità di un mandala, racchiude istanze personali che raggiungono la
finitezza solo quando il suo autore sente di averla completata. E’ importante,
dopo la sua esecuzione, osservarla, spesso accade di non riconoscerla, o di non
riconoscersi. Il contatto, l’osservazione evocano emozioni, ricordi, la
concentrazione riporta a quel momento in cui si era soli, alla sua nascita.
Riconoscerla vuol dire donarle credibilità, renderla una emanazione personale,
indossarla vuol dire acquisire le sue potenzialità, la sua energia,
identificarsi in quei tratti che la definiscono. L’aspetto arcaico delle
maschera costruite con la carta pesta rendono più regressiva l’esperienza.
Spesso i volti sono quasi deformi ed evocano immagini primitive di Divinità,
uomini, animali. La maschera quando non è indossata richiama ad una sacralità
contemplativa, è un’immagine distaccata dal turbinio delle emozioni, che
osserva ed incute rispetto, timore. Nel movimento si anima, nel guardarla
suscita emozioni più umane, spesso una sorta di tenerezza per la sua
mostruosità, perché spesso le maschere sono poco armoniche, e il gesto e il
movimento di chi le indossa trasmette un’immagine impacciata che chiede ascolto,
chiede di poter esprimere, chiede di vivere. Spesso sorgono delle difficoltà da
parte dei pazienti ad indossare la maschera, sia perché essa è rigida e ruvida,
sia perché molto spesso all’autore non piace la sua fattezza,; la maschera non
corrisponde all’idea che si aveva in mente, è diversa, è lontana dal progetto
iniziale, interrompe la comunicazione verbale, sembra che non c’entri nulla con
quello che si sta facendo: la maschera chiede di intervenire, far ascoltare la
propria voce che è meno potente della parola ma senz’altro più autentica.
(Articolo pubblicato sul
Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura n.5 Terapie
- ottobre 2007)
MADRI
CHE UCCIDONO
di Maria Galantucci, Psicologa, Psicoterapeuta
Il periodo più a rischio in
cui si scatena l’impulso omicida contro i figli è quello che va dal parto ai
sei mesi di vita del bambino.Resnick, nel 1970, è stato il primo a stabilire la
differenza tra neonaticidio, relativo ai bambini nati con meno di 24 ore;
infanticidio, relativoai bambini minori di due anni; e figlicidio, ovvero
l’uccisione di una figlia o figlio che hanno superato questa età.
Le categorie individuate
sono le seguenti:
1. figlicidio altruistico
2. figlicidio a elevata componente psicotica
3. figlicidio di un figlio indesiderato
4. figlicidio accidentale
5. figlicidio per vendetta sul coniuge
6. figlicidio per motivi economici
7. infanticidio multiplo
Figlicidio altruistico
La madre compie l’omicidio
per sottrarlo ai mali del mondo, per salvarlo dalla sofferenza di esistere, per
preservarlo da reali o presunte difformità. Impulsi irrazionali e convinzioni
religiose possono confluire in uno stato depressivo in cui la sofferenza
interiore, l’angoscia e il mal di vivere concorrono alla messa in atto di un
gesto irreversibile, forse incubato e fantasmato da tempo. Il fattore
scatenante della dinamica omicidi aria non è necessariamente di carattere
patologico o psicotico, anche se può essere ascritto a una malattia mentale
pregressa. Esistono, anche da parte degli studiosi del fenomeno, considerazioni
di tipo biopsicosociale, che non ignorano gli aspetti biochimici ma anche di
adattamento sociale. Un cedimento nervoso, una malattia fisica, l’abuso di
medicinali, l’insonnia cronica, la frustrazione esistenziale possono essere
infine fra i detonatori di questo terribile atto privo di segni premonitori. Non
di rado all’omicidio del bambino segue il suicidio della madre.
Figlicidio a elevata
componente psicotica
Il figlicidio a elevata
componente psicotica si verifica quando il genitore uccide in preda a un
raptus, ad allucinazioni imperative in forma di comando, sdoppiamento della
personalità, turbe sociali, demonizzazione del figlio, depressione post-partum,
scompensi ormonali, malinconia psichica, frustrazione individuale. Si può
inserire nella presente catalogazione lo stress; ovvero un insieme di fattori
stressanti, nel quale confluiscono eventi dovuti anche a gravi perdite
affettive – dal lutto alla separazione – capaci di giungere fino alla violenza
domestica e all’omicidio.
Figlicidio di un figlio
indesiderato
In questi casi la madre si
ritrae dal bambino perché frutto di una relazione extraconiugale o per
immaturità, in quanto ancora adolescente.
Si tratta di madri che
negano la gravidanza e giungono a “fecalizzare”
il bambino. Altre non li accettano per motivi economico-sociali, di
“onore” personale e familiare. Inoltre il rifiuto materno può aver luogo perché
i figli non sono accettati, o al contrario desiderati dai loro mariti o
conviventi. Non mancano, nella
casistica, episodi di madri che odiano i figli poiché li ritengono responsabili
del loro abbruttimento fisico, o della costrizione di un ruolo frustrante. Non
sono rare, tra loro, le persone afflitte da malattie mentali a base
persecutoria, con comportamenti deliranti e paranoidei.
Figlicidio accidentale
La madre, normalmente
avversa alla violenza sul figlio, può causarne la morte con un gesto impulsivo
ma irrazionale, spesso conseguenti a pianti e urla del piccolo. In diversi
episodi queste donne presentano un comportamento irritabile e impulsivo, o sono
affette da disturbi della personalità definiti patologici, anche se non
permanenti. Tale categoria complessa
assume comportamenti alterati a causa dell’assunzione di droghe o
alcool. Alla morte di infanti e adolescenti può contribuire anche, come è stato
osservato clinicamente, l’atteggiamento di madri ansiose e insicure che
prodigano apparentemente cure affettuose ai figli ma in realtà li stanno
uccidendo o, comunque, non consentono loro di vivere normalmente. Somministrare
sostanze dannose ai figli, inventarne sintomi patologici esponendoli a esami e
interventi pericolosi, rientra nella cosiddetta “Sindrome di Munchausen per
procura”, studiata da Asher nel 1951. L’eccesso di amore o la sua mancanza
inconsapevole, la paura di perdere l’essere generato che era in sé o il
considerarlo un prolungamento del proprio io generante, può annientarli
entrambi.
Figlicidio per vendetta e
gelosia contro il marito o il compagno
Questo omicidio anche plurimo dei figli, perpetrato per
motivi sentimentali, psicologici, di rado a causa di interesse, viene
attribuito dagli analisti alla madre abbandonata o tradita che si vendica del
marito o del compagno uccidendone la prole. Eros e Thanatos, amore e morte si
saldano in questo dramma, definito “Complesso di Medea”, che come spesso capita
ha per epilogo una strage di innocenti. Oltre al desiderio di vendetta, nella
“Sindrome di Medea” agiscono anche sentimenti quali la gelosia e l’invidia,
esemplificati attraverso la tragica vicenda di Erba.
Figlicidio per motivi
economico-sociali
Il rifiuto e l’eliminazione
del figlio per ragioni economiche e sociali concernono, nella maggior parte dei
casi, un neonato o un infante. Questa categoria omicidi aria è legata al timore
della madre di essere inadeguata o impossibilitata a fronteggiare i problemi
connessi alla sopravvivenza e al futuro della sua creatura. Si tratta di una
proiezione ansiosa, distruttiva, non di rado originata dallo stato irregolare
della madre o della coppia, che si sente colpevole o inferiore, rispetto ai
paradigmi economici imposti dalla comunità. Attualmente, la pillola e
l’interruzione volontaria della gravidanza hanno contribuito alla diminuzione,
almeno statistica, del reato determinato da tali moventi. Anche se cause
economiche e sociali, quasi invisibili, si nascondono dietro a non pochi casi
con altra dominanza categoriale. Ivi compresi quelli classificati nella
categoria patologica e psichiatrica.
Infanticidio plurimo
Capita di rado che con un
solo atto omicidi ario vengano uccisi più figli. Si tratta di una categoria
composita che non ha basi motivazionali ma operazionali. Si tratta di
infanticidi, o meglio di neonaticidi sequenziali, perpetrati in periodi ed età
materne differenti. Non si può parlare di “madri killer”, dato che l’assassinio
seriale codificato presenta caratteristiche a componente sadica, sessuale o
simbolica. Tentando poi di chiarire la psicologia e i problemi sociali delle
madri, ci si può trovare di volta in volta di fronte a disturbi della
personalità, percezione fantasmatica, contrapposizione a volte cruenta tra
madre e figlio, oppure a paure economiche reali o immaginarie.
Conclusioni
L’uccisione di un bambino –
e peggio ancora di un neonato – per mano di sua madre è un gesto così violento
che è impossibile giustificarlo. Ma bisogna giustificarlo, oppure tentare di
capirlo perché sia più facile
prevenirlo. E’ così frequente leggere nel giornale trafiletti che parlano di
omicidi, incidenti, drammi della vita, e poi continuare per la propria strada
dimentichi delle brevi righe appena lette. Credo che sia necessario che si
sviluppi un senso di responsabilità collettiva nei confronti delle madri
dimenticate. Il malessere provocato dall’arrivo di un figlio non è un fenomeno
raro. Abbiamo la capacità di fare qualcosa, di mostrarci creativi, di imporre
non solo che le madri siano curate, ma che ci
si prenda cura di loro. Per nascere madre non basta mettere al mondo un
figlio, è necessario che si metta in moto tutta una serie di processi. Una
madre deve vivere la propria condizione con un senso di sicurezza e di fiducia,
sentirsi parte di una storia familiare positiva, aver concepito il bambino in
un contesto di attesa affettiva, in una speranza di progetto parentale. Tornando
al concetto di prevenzione, constatiamo che esso esiste solo sulla carta, segno
di un disimpegno della collettività nei confronti dell’individuo. Mentre i
rapporti ufficiali sull’argomento si moltiplicano, il numero delle pazienti che
dimostrano una sofferenza psichica non diminuisce. Paradossale per una società
che possiede sempre più mezzi per curare l’uomo. Dobbiamo pensare che un certo
tipo di sofferenza sfugga al progresso. Circa vent’anni fa M. Soulé e J. Noel
esponevano alcune delle implicazioni indispensabili dell’idea di “prevenzione
precoce”. Si trattava di agire molto presto, in maniera trans-disciplinare,
prendendo atto della “vulnerabilità parentale”, vale a dire della possibilità
che dei futuri genitori fossero turbati dall’arrivo del figlio. Secondo gli autori
poteva trattarsi di un disagio lieve, ma anche grave, e a volte nulla ne
lasciava presagire la natura. Per questo bisognava essere presenti, vigili, e
saper riconoscere i segnali premonitori di un malessere nel rapporto
genitore-figlio. Ma M. Soulé e J. Noel
sottolineavano anche l’importanza di saper distinguere fra gli eventuali
segnali di allarme e una patologia conclamata. “La linea di frontiera fra una
prevenzione equilibrata e un’investigazione sospettosa è sottile”.