Nasce
il Protocollo Discentes per l'apertura di nuove scuole di formazione in Arti
Terapie in Italia
Intervista di Raffaela
D'Alterio a Stefano Centonze, Direttore e Fondatore dell'Istituto di Arti
Terapie e Scienze
Creative e della piattaforma e-learning Discentes.it
Siamo in compagnia di
Stefano Centonze, Direttore e Fondatore dell’ Istituto di Arti Terapie e
Scienze Creative, Scuola di Formazione e Centro Studi sull’applicazione delle
Arti Terapie. Oggi parliamo di una grande novità che interesserà tutti gli
addetti ai lavori e gli interessati a queste affascinanti discipline. Qual è,
dunque, la notizia, Direttore?
La notizia è che, dopo un
anno d’attesa, da oggi il nostro Istituto si apre a nuove collaborazioni in
tutta Italia, attraverso l’apertura di sede regionali e provinciali dei Corsi
Triennali di Formazione in Musicoterapia, Arte Terapia Plastico-Pittorica,
Teatro Terapia e Danza Movimento Terapia.
In altre parole?
In altre parole, il nostro
Istituto, incoraggiato dall’ottimo riscontro presso gli oltre 60.000 visitatori
annui del portale www.artiterapielecce.it e presso i 40.000 abbonati alla
Rivista On Line, con questa determinazione intende esportare il proprio modello
didattico ed offrire un partenariato
stabile a quanti vogliano avviare una propria scuola di formazione in Arti Terapie in ogni Regione.
Possiamo parlare della
nascita di un circuito d’affiliazione alla Scuola di Arti Terapie di Carmiano?
Sì ma solo da alcuni punti
di vista. Il senso dell’iniziativa è mettere a disposizione della diffusione
della cultura delle Arti Terapie – e per incentivare il loro riconoscimento
formale, che passa da una capillare articolazione delle scuole di formazione e
della veicolazione di un messaggio di alta professionalità - un modello sul quale abbiamo lavorato per
degli anni. l’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative, che ha come scopi
statutari la formazione in Arti Terapie degli operatori, l’applicazione delle
Arti Terapie al disagio fisico, psichico e sociale e la ricerca scientifica,
organizza dal 2004, nel Salento, corsi di specializzazione triennale in
Musicoterapia, Arte Terapia Plastico-Pittorica, Teatro Terapia e Danza
Movimento Terapia. Nel suo modello didattico ha da sempre utilizzato un
impianto teorico di base corposo (lo studio del materiale documentale) che, con
l’avvento di internet e delle nuove tecnologie, abbiamo scelto di svolgere in
FAD, a distanza, sulla nostra neonata piattaforma e-learning Discentes.it, visibile
all’indirizzo web www.discentes.it.
Dunque, non si tratta solo
di trasferire on line quello che tradizionalmente si studia in presenza…
Infatti. On line si
studieranno solo le materie teoriche, mentre in presenza sarà necessario
svolgere la formazione laboratoriale che, nelle nostre discipline, è
imprescindibile. Il Protocollo Discentes è un modello integrato di formazione,
tra studio a casa e attività in presenza: noi forniamo la piattaforma per lo
studio a distanza, le sedi che aderiranno forniranno le attività di
laboratorio, che confluiranno in un unico calendario nazionale che sarà
disponibile sul nostro sito, ed un tutor per monitorare lo studio degli allievi
di quella determinata sede. Ciò, d’altro canto, creerà un circuito nazionale di
scuole che aderiranno ad un calendario unico e che permetterà ad ogni allievo
di scegliere la sede più vicina o quella più interessante dove svolgere la
propria formazione in presenza. Insomma, libero mercato, libera circolazione ma
all’interno di un sistema circoscritto, monitorato e professionale: tutti gli
allievi che vi aderiranno dalle varie scuole si incontreranno on line,
scambieranno esperienze, materiali, conoscenze… Svolgeranno, dunque, una
formazione molto ricca e a costi molto contenuti – dettaglio non trascurabile
-.
Ma questo studio on line non
può pregiudicare la qualità dei corsi?
Affatto. Anzi, al contrario.
Noi crediamo che organizzare in modo intelligente lo studio di dispense,
monografie, presentazioni in power point, le lezioni in diretta e registrate,
le discussioni e i test agevoli la programmazione dell’apprendimento graduale
dell’allievo, il quale, al termine del triennio, avrà competenze che gli
permetteranno di relazionarsi ad ogni genere di professionalità. Dalla scuola,
con gli insegnanti, ai contesti clinici, con i medici. Quindi, e con ciò torno
alla sua precedente domanda, il protocollo Discentes per la formazione in Arti
Terapie in Italia non è solo un circuito di affiliazione. O, meglio, lo è per
le scuole di nuova costituzione che possono adottare il nostro know how. Ma le
scuole già attive possono aderirvi semplicemente per utilizzare un impianto
teorico del valore di circa 500 di studio in tre anni, in aggiunta ai modelli
didattici già adottati.
Ecco, prendiamo l’esempio di
una scuola di formazione già operante. Quale vantaggio le comporta l’adesione
al protocollo Discentes?
Beh, il protocollo Discentes
organizza tutta la didattica documentale con uscite programmate dei testi,
argomenti di discussione e verifiche. Tutto contenuto nel piano di studi
generale. Una scuola attiva che adotti il nostro Protocollo, può razionalizzare
lo studio teorico on line ed incastrarlo con le attività di laboratorio, così
soddisfacendo le necessità degli allievi che spesso vivono la frustrazione della
divergenza tra momento teorico e momento esperienziale. Può, inoltre, seguire
con maggiore semplicità gli allievi più distanti dalla propria sede, aumentare
il monte ore del proprio percorso triennale, monitorare lo studio sistematico
degli allievi, abbattere i costi, anche per la tenuta della segreteria
(consideriamo la mole di lavoro che ci vuole per organizzare un test in
presenza) e altro ancora.
E per le scuole di nuova
costituzione?
Per le scuole di nuova
costituzione che nascono con il Protocollo Discentes è ancora più semplice. Noi
forniremo tutti i supporti all’avvio, dal modello d’iscrizione per allievi, al
corso per i Tutor on line, ai docenti per le attività in presenza, se non già
disponibili. Oltre a tutti i vantaggi di cui abbiamo già parlato prima. Le
nuove sedi sarà necessario che individuino semplicemente uno spazio fisico per
le attività di laboratorio.
Si direbbe, una bella
rivoluzione nelle Arti Terapie…
Sì, se si considerano i
punti nodali della formazione oggi disponibile in Italia. E forse è il caso di
fare un po’ il punto della situazione.
Lo stato dell’arte dice che
l’offerta formativa in Arti Terapie (Musicoterapia, Arteterapia
Plastico-Pittorica, Danzaterapia e Teatroterapia) è affidata a un considerevole
numero di Scuole private, in larga parte associazioni, ciascuna delle quali con
un proprio modello di riferimento e con una propria struttura didattica. In
mancanza di normativa nazionale in materia di riconoscimento delle professioni
ed in mancanza di albi professionali, ogni Scuola può, infatti, stabilire
autonomamente la durata della formazione, le materie di studio, le competenze
dei docenti, il titolo rilasciato, se svolgere supervisioni e tirocinio, le
modalità di valutazione della formazione, i requisiti d’accesso degli allievi,
ecc.
Esistono, tuttavia, da
sempre, nelle associazioni di categoria, prevalentemente a carattere europeo o
mondiale, criteri di base per la formazione di figure professionali in grado di
operare consapevolmente in ambito pedagogico quanto clinico. Solitamente,
dovendo tracciare un quadro generale comune alle quattro discipline
(Musicoterapia, Arteterapia Plastico-Pittorica, Danzaterapia e Teatroterapia),
il corso ideale dovrebbe avere una struttura didattica nell’arco di tre anni
almeno di formazione e per 800-900 ore di aula, bilanciata tra gli insegnamenti
afferenti all’area teorico-relazionale
(psicologia, psichiatria, neurologia), all’area artistica di riferimento
(musica, danza, teatro, pittura) ed all’area specialistica (musicoterapia,
danzaterapia, arteterapia plastico-pittorica, teatroterapia).
Oltre all’organizzazione
didattica di base, l’elemento che caratterizza la formazione in Arti Terapie è
che la medesima è rivolta essenzialmente alle figure professionali che operano
nell’helping professions, dunque maggiorenni, con una forte motivazione alla
relazione d’aiuto ed in grado di sostenere economicamente un costo importante
per una formazione ancora non riconosciuta. In tutti gli altri casi, ovvero
allorquando gli allievi provengono da esperienze formative diverse o da
formazione prevalentemente in ambito artistico, la statistica evidenzia un
elevato tasso di abbandono dei corsi di formazione, sia per il venire meno
delle motivazioni (non adeguatamente valutate in sede di colloquio preliminare),
sia per il notevole impegno che il corso stesso comporta (operatori impegnati
durante la settimana si trovano a dover frequentare i corsi nel week end,
sottraendo tempo alla famiglia ed al proprio riposo), sia per ragioni di
carattere economico (un corso triennale di prima fascia oggi prevede un costo
medio di circa di Euro 1.800/00-2.000/00 all’anno).
Ultimo fattore di criticità
rilevato è che ogni Scuola appare come un universo a se stante, nel quale, per
un allievo che voglia frequentare alcuni momenti formativi, appare impossibile
integrarsi per via di organizzazioni didattiche sempre troppo diversificate.
E su questi fattori di
criticità si innesta la vostra proposta…
Esatto. Il protocollo
Discentes è un documento programmatico, realizzato dall’Istituto di Arti
Terapie e Scienze Creative per l’affiliazione di Scuole di Formazione, sia
esistenti che future, ad un modello integrato di formazione in Musicoterapia,
Arteterapia plastico-pittorica, Danzaterapia, Teatroterapia, tra attività di
laboratorio in presenza e formazione a distanza, con l’obiettivo di migliorare
e consolidare le competenze in uscita degli allievi, a vantaggio di una maggior
professionalizzazione degli arte terapeuti, di ridurre i costi della formazione in Arti Terapie e
di aumentare il numero delle domande di
iscrizione nelle Scuole di Arti Terapie del territorio nazionale.
Prevediamo, dunque, un
programma di consociazione con l’apertura di una delegazione in ogni regione
d’Italia e di altre sedi principali in totale autonomia gestionale,
organizzativa e di identità, ma in condivisione di impianto metodologico.
Lei, dunque, come vede la
Scuola di Arti Terapie del futuro?
Noi abbiamo previsto che la
formazione in Arti Terapie possa essere uniformata ad un numero esiguo di
modelli didattici. Noi abbiamo il nostro e lo mettiamo a disposizione degli
addetti ai lavori, presenti e futuri. Crediamo, questo sì, che il nostro
progetto sua all’avanguardia, stabilisce che gli allievi in formazione possano
circolare liberamente all’interno di un sistema di Scuole che scelgano di
adottare un protocollo comune, snello e dinamico, livellato verso l’alto,
ovvero fondato su basi teoriche e scientifiche comuni su cui innestare attività
di laboratorio diversificate, in ciascuna Scuola secondo il proprio modello di
riferimento. Ciò mai a discapito delle competenze in uscita. Il nostro
protocollo, anzi, mira a garantire che le stesse siano consolidate e
spendibili, grazie ad uno studio del materiale documentale graduale e costante,
al pari del monitoraggio e delle verifiche sulla crescita personale e
professionale di ogni allievo. L’uso della piattaforma e-learning, poi, non è
altro che il risultato dell’esigenza di essere al passo con i tempi: sappiamo
che prendono sempre più piede le nuove tecnologie, in modo particolare con
l’uso degli strumenti oggi messi a disposizione da Internet, e che questo
strumento consentirà un buon abbattimento dei costi di iscrizione ai corsi di
Arti Terapie. Non abbiamo fatto altro che coniugare correttamente i due momenti.
Le andrebbe di illustrare in
sintesi per i nostri lettori le caratteristiche e i vantaggi del Protocollo
Discentes? Credo sia interessante avere un’anteprima…
Intanto, propongo ai lettori
interessati a formarsi o a collaborare con noi di scaricare il documento
programmatico da me firmato e disponibile sul sito www.artiterapielecce.it. In
breve, per rispondere alla sua domanda, credo sia utile sottolineare le
caratteristiche principali. Il Protocollo Discentes garantisce 170 ore di
studio all’anno – 510 ore nel triennio – tra discipline teoriche di base
(psicologia, psichiatria, neurologia, con argomenti diversificati secondo
l’anno di corso), teorie e tecniche delle Arti Terapie (principali modelli e
applicazioni della Musicoterapia, Arteterapia Plastico-Pittorica, Danzaterapia
e Teatroterapia) e monografie di approfondimento per ogni disciplina. Fornisce
materiale documentale (dispense in PDF, lezioni in video, in diretta e
registrate, presentazioni in PPT), così evitando che l’allievo sostenga il
costo dell’acquisto dei testi, e strumenti di monitoraggio e verifica sulla
formazione di ogni allievo, grazie alla tracciabilità della presenza dello
stesso on line, all’uscita temporizzata del materiale documentale, alla
pubblicazione degli argomenti di discussione successiva alla comparsa del
materiale da studio su piattaforma, al test intermedio individuale on line con
correzione automatica contestuale. Garantisce, dunque, lo studio graduale e
costante del materiale proposto e, al tempo stesso, agevola l’organizzazione
dei calendari nella Scuola (le attività di laboratorio, ad esempio, possono
essere organizzate in prossimità dell’uscita di un determinato materiale
documentale), così contribuendo a creare un “metodo didattico” di cui spesso
gli allievi sentono la mancanza, come già detto. Dal punto di vista economico,
consente una riduzione dei costi di iscrizione a carico degli allievi, oltre a
ridurre, per le suole di formazione, i costi di segreteria (gestione progetti,
test, aggiornamento dei libretti degli esami, tenuta dei verbali relativi alle
prove scritte) e delle docenze.
Spero di non essere stato
troppo ripetitivo ma credo che le novità vadano illustrate in modo dettagliato
ed approfondito. In fondo, siamo ad un passo dal futuro. Anzi, il futuro delle
Arti Terapie e già oggi, mentre ne parliamo.
Per concludere, chi può fare
richiesta di aprire una scuola di nuova costituzione in base al Protocollo
Discentes?
Sostanzialmente, chiunque
operi nelle professioni d’aiuto, nel volontariato, in ambito clinico,
indipendentemente dal fatto che abbia già formazione in arti terapie o che si
tratti di associazioni, società o singoli professionisti, scuole di formazione
o scuole di arti terapie, poiché saremo noi a fornire le garanzie e le
professionalità necessarie per assicurare un’ottima qualità della formazione.
Non ci diamo limiti. Il nostro Protocollo può supportare qualunque proposta di
collaborazione. Certo un limite c’è: è quello delle sedi per Regione o
Provincia. Noi apriremo solo una sede per ogni Provincia, in ordine di arrivo e
di valutazione di domanda. Per ogni Regione con almeno tre sedi attive,
attiveremo successivamente una delegazione regionale con altre caratteristiche
di cui per ora è prematuro parlare.
Oggi si dice che la nuova
imprenditoria passi per il sociale. Sembra proprio così. Per quando è previsto
il lancio del progetto?
Entro pochi giorni e fino a
fine anno i siti istituzionali e partner riporteranno la notizia. Da Gennaio,
ad ogni modo, partirà la prima esperienza per le nuove sedi, anche da
Settembre, per le scuole già attive che vogliano utilizzare la nostra
piattaforma. Il sistema lo abbiamo già testato a Lecce in questo anno e
funziona. E soprattutto piace.
Vogliamo lasciare un
indirizzo per contatti e per seguire questa splendida opportunità?
La notizia sarà diramata
attraverso il nostro Ufficio Stampa sui siti www.artiterapielecce.it,
www.discentes.it, www.polomusicoterapia.it e www.circolovirtuoso.net.
Sempre a breve, saranno
diffusi comunicati audio e video, ad esempio attraverso Mappa Terzo Settore Web
TV (www.mappaterzosettore.it/webtv) ed il nostro canale Youtube. La notizia
sarà diffusa, infine, attraverso Facebook, Myspace, Twitter ed altri comuni
canali d’informazione e condivisione. Per i contatti telefonici, la nostra segreteria
risponde allo 0832.601223 e 329.4226797.
Un'equipe
di lavoro a sostegno della famiglia: professionalità diverse, obiettivi comuni
di Maria Galantucci
Raggiungere un buon senso
d’identità personale permette di stare bene con se stessi, con gli altri, di
affrontare i cambiamenti inevitabili della vita e gli eventi, a volte dolorosi,
dell’esistenza. Raggiungere un buon equilibrio è auspicabile per tutti, ma
diventa necessario e indispensabile per tutte quelle persone che decidono di
occuparsi degli altri.
Attraverso una formazione
che comprende un’analisi personale e una supervisione costante e continuativa
di gruppo, gli operatori acquisiscono strumenti psicoanalitici che gli
permettono di imparare a leggere e a gestire la complessità delle relazioni
d’aiuto, salvaguardare il loro benessere psicofisico, ma soprattutto prevenire
il burn-out.
Saper distinguere i vissuti
personali da quelli “indotti” dall’altro, discernere le emozioni e la
sofferenza dell’utente da quelle dell’operatore, permette un intervento
adeguato e proficuo atto al raggiungimento degli obiettivi che sono alla base
del mandato.
La costituzione di un’equipe
permette infatti di affrontare adeguatamente il caso nella sua complessità e
nelle diverse sfaccettature. Inoltre consente a ciascun operatore di
riconoscere gli stati emotivi e ricondurli agli utenti; opera un percorso di
scelta personale e professionale; favorisce la capacità di relazione con gli
altri membri del gruppo di lavoro e di supervisione.
L’ esperienza ventennale e
l’indirizzo psicoanalitico adottato (analisi personale e supervisione continua)
, ha permesso la costituzione di un’equipe che ha favorito sia un percorso di
crescita professionale individuale, sia un’evoluzione positiva e proficua del
lavoro di gruppo.
Infine un approccio di
questo tipo, valorizza i rapporti primari, la famiglia, la cultura, le radici
di ogni utente.
La modalità della lettura
empatica prevede l’utilizzo dei seguenti strumenti:
1)Verbalizzazione degli
stati emotivi percepiti da ciascun operatore
2)Libere associazioni
3)Analisi dei fenomeni
corporei
4)Drammatizzazione del
materiale/agiti degli utenti.
I vissuti ricorrenti che si
riscontrano tra i membri di un’equipe, e tra questa e un’altra equipe esterna
(comune, scuola, comunità o altro), si possono sintetizzare nel modo seguente:
- sfiducia nel collega e/o
per un membro o per l’intera équipe esterna
- ricerca di alleanza
esterna al gruppo
- operatore vissuto come vice-padre/vice-madre
- competizione tra colleghi
- competizione tra le
diverse équipe
-
ipervalutazione/svalutazione
- delega di responsabilità
- sentirsi capo, autorità:
sovraccarico, tensione, paura di scoppiare, di non reggere la responsabilità
- difficoltà a prendere
decisioni
- bisogno di condividere le
decisioni e le responsabilità
- paura che lavorando in
équipe si confonda o venga meno l’identità professionale individuale
- difficoltà di rapporto tra
colleghi
- non riuscire a staccare
dal lavoro
Nel corso della supervisione
e del lavoro di gruppo, si evince che ogni operatore “porta emotivamente” uno o
più utenti, “agendo” stati emotivi quali sfiducia, competizione, sensi di
colpa, che rendono la comunicazione tra gli stessi difficile e a volte
stereotipata.
Per comprendere meglio le
dinamiche che si instaurano all’interno del gruppo di lavoro, utilizzeremo il
modello transfert-controtransfert proposto da Gabbard.
Gli utenti, specialmente
quelli che utilizzano il servizio domiciliare, tendono a ripetere le loro
dinamiche relazionali familiari. Più precisamente essi esteriorizzano le loro
relazioni oggettuali interne. La riproposizione delle relazioni oggettuali
interne degli utenti nel campo interpersonale dell’intervento, può essere
compresa meglio attraverso un esame dei meccanismi di difesa della scissione e
dell’identificazione proiettiva.
La scissione e
l’identificazione proiettiva agiscono per disconoscere ed esteriorizzare le
rappresentazioni del Sé e dell’oggetto, spesso associate con specifici stati
affettivi.
Questo disconoscimento
proiettivo è un modo per costringere le persone in quel contesto a partecipare
alla versione esteriorizzata delle relazioni oggettuali interne.
L’identificazione proiettiva
opera inconsciamente, automaticamente e con forza irresistibile. Il personale
si sente tiranneggiato o costretto ad accondiscendere al ruolo che gli è stato
attribuito proiettivamente. La prospettiva psicodinamica riconosce che i membri
dello staff sono più simili che diversi rispetto agli utenti.
I sentimenti, le fantasie,
le identificazioni e gli introietti all’interno degli utenti hanno le loro
controparti negli operatori.
Queste controparti possono
essere represse più fortemente nei membri dello staff, quando esse vengono
attivate da un utente, poiché spesso sono vissute come forze estranee che
travolgono l’operatore. In realtà, gli operatori, che sono i bersagli del
materiale proiettato, spesso sentono di trovarsi in un legame emotivo con
l’utente che li rende incapaci di pensare,
sentire o funzionare secondo
il loro consueto ruolo (analitico, educativo, assistenziale).
Definire in questo modo
l’identificazione proiettiva suggerisce che gran parte dell’intenso
controtransfert vissuto dai membri dell’équipe, coinvolti nel trattamento, può
essere compreso come un derivato delle identificazioni inconsce con gli aspetti
proiettati del mondo interno degli utenti.
Comunque sarebbe ingenuo e/o troppo
semplicistico ritenere che
tutte le reazioni emotive degli operatori siano da attribuire a vissuti e/o
emozioni, sentimenti inespressi da parte degli utenti a loro in carico.
Uno dei vantaggi
dell’analisi personale, prevista nella formazione, è quello che ciascuno dei
membri dello staff sia in grado individualmente di far una distinzione tra le
problematiche psicologiche personali da quelle degli utenti.
Via via che i membri dello
staff acquisiscono familiarità con il mondo oggettuale interno dell’utente,
essi cercheranno di “contenere” le proiezioni anziché identificarsi con esse.
Così facendo, un circolo vizioso viene infranto: l’utente si trova di fronte a
un gruppo di persone che anziché rispondere alle sue richieste emotive, ai suoi
bisogni, ai suoi rifiuti, “facendo” per lui, “agendo” per lui, “scegliendo” al
suo posto, lo mette invece davanti alle sue responsabilità, l’aiuta a
comprendere e modificare, per quanto è possibile, atteggiamenti e comportamenti
sbagliati: infine gli “insegna” a capire e ad elaborare vissuti che sono prevalentemente di colpa,
svalutazione, incapacità, impotenza, solitudine, rabbia, giudizio,
inadeguatezza, rinuncia.
Nell’ambito della
supervisione, il compito principale, è quello di analizzare i sentimenti, i
vissuti che gli utenti evocano negli operatori. Implicito in questo compito è
l’assunto secondo il quale gli operatori devono avere una sufficiente
familiarità con le proprie configurazioni interne del Sé e dell’oggetto, così
da poter discernere i due tipi di controtransfert, ovvero il materiale
“indotto”.
I membri dello staff devono
verbalizzare liberamente tutto ciò che provano, che sentono, anche a livello
fisico, nei confronti degli utenti, per poter poi esaminare la loro risposta
emotiva, ed evitare così di “agire” gli stessi.
Da una prospettiva
individuale, questo approccio significa evitare l’atteggiamento dell’operatore
“devoto”, che cerca di essere sempre amorevole, disponibile a sostituirsi alle figure genitoriali; o al
contrario essere ipercontrollato e iperdifeso nei confronti delle reazioni
emotive dell’utente.
L’apertura alle relazioni
controtransferali deve esistere, in maniera analoga, a livello di gruppo.
L’équipe deve promuovere un
atteggiamento non critico di accettazione nei confronti delle varie reazioni
emotive che i membri dello staff possono avere verso gli utenti. Queste
reazioni emotive devono poter essere discusse apertamente e con comprensione.
E’ necessario che il gruppo valorizzi e accetti l’espressione dei sentimenti da
parte di tutti i membri dello staff evitando di interpretarli come
manifestazioni di conflitti personali non risolti e non analizzati.
Questa consapevolezza deve
comprendere la conoscenza delle tipiche reazioni controtransferali a certi tipi
di utenza, così come il funzionamento più adattivo e libero da conflitti.
Questa familiarità potrà aiutare il gruppo a notare le deviazioni dalle
caratteristiche modalità relazionali con gli utenti, nonché a riconoscere gli
“agiti.
Via via che la costituzione
del gruppo di lavoro procede, aumenta il senso
di obiettività con cui vengono trattati i casi in carico. Ciò è un
importante risultato per lo staff. Potrebbe sembrare, almeno inizialmente,
un’aspettativa irrealizzabile, in quanto gli utenti evocano negli operatori
sentimenti molto forti. Inoltre tale obiettività è particolarmente difficile da
raggiungere per il personale educativo /assistenziale che interviene a
domicilio, in quanto non tutelato da un setting strutturato.
Durante il lavoro di
supervisione gli operatori vengono incoraggiati a elaborare i loro sentimenti e
a utilizzarli per comprendere lo stato emotivo in cui si trova l‘ utente.
Via via che l’affiatamento
progredisce, i membri dello staff saranno addestrati a una maggior comprensione
delle relazioni oggettuali interne degli utenti, e saranno a quel punto meno
inclini a identificazioni controtransferali, ridurranno gli “agiti”, inoltre
saranno in grado di avvicinarsi agli utenti con maggiore obiettività.
Un altro aspetto che va
tenuto in seria considerazione è relativo al comportamento che può assumere
qualche operatore, più incline a negare il controtransfert sentimenti/emozioni,
quali odio, rabbia e disprezzo, eludendo il senso di colpa; vissuti che egli
prova nei confronti dell’utente e che comunicherà comunque al gruppo, in
maniera non verbale.
Se i membri dello staff
riconoscono la loro ambivalenza e l’affrontano più apertamente, anche gli
utenti saranno a loro volta maggiormente in grado di riconoscere la propria
ambivalenza, potranno fare i conto con i loro sentimenti di odio, rancore,
rabbia, senza temerli.
Il modello dell’interazione
staff-utente qui suggerito è analogo a quello descritto per lo psicoterapeuta.
I membri dello staff dovrebbero evitare il distacco ed entrare nel campo
interpersonale del paziente in maniera spontanea ma controllata.
Questa capacità di
permettersi d’essere “risucchiati”, ma solo parzialmente, è un assetto
straordinario che consente ai terapeuti di acquisire una comprensione empatica
dei problemi relazionali del paziente (Hoffamn,Gill, 1988).
Nella supervisione e nel
lavoro di gruppo, soprattutto nelle situazioni dove la presa in carico, prevede
una differenziazione di ruoli e di interventi, le rappresentazioni di Sé e
dell’oggetto dell’utente vengono esteriorizzate tutte in una volta sui diversi
membri dello staff.
Attraverso il processo di
scissione, i membri dello staff si trovano ad assumere e a difendere l’uno
contro l’altro delle posizioni altamente polarizzate con una veemenza
spropositata rispetto all’importanza della questione.
E’ come se l’utente ha
presentato una rappresentazione del Sé a un gruppo di operatori e un’altra
rappresentazione del Sé a un altro gruppo di operatori . Questa discrepanza si
manifesta innanzitutto nel corso della supervisione nella quale si discute di
quella persona e/o nucleo familiare. I membri dello staff potrebbero trovarsi
confusi di fronte alla diversità delle descrizioni date, tanto da chiedersi se
si sta parlando della stessa persona e/o situazione. Le varie drammatizzazioni
che vengono via via rappresentate nel corso della supervisione, rendono molto
l’idea di ciò che succede internamente a ciascun soggetto, ma anche all’esterno
e nella relazione interpersonale nell’ambito del gruppo di lavoro.
Attraverso la scissione, che
è un processo inconscio e che viene utilizzato automaticamente per
salvaguardare la propria sopravvivenza emotiva, i diversi operatori si
identificano inconsciamente con gli oggetti interni dell’utente e mettono in
atto i ruoli di un copione scritto dall’inconscio dell’utente. Inoltre, per via
dell’identificazione proiettiva e degli “agiti”, spesso la risposta degli
operatori è quella di comportarsi “come qualcun altro”. Quando un gruppo
raggiunge questo grado di frammentazione, può capitare che i membri dello staff
si arrabbino l’uno nei confronti dell’ altro, agiscano come propri sentimenti,
emozioni negate o censurate, provenienti o meglio, indotte dagli utenti ,
mettendo a dura prova la coesione del gruppo, la fiducia e la stima reciproca.
Come gli altri meccanismi di
difesa, la scissione è una valvola di sicurezza che protegge l’utente da ciò
che percepisce come un pericolo schiacciante. Il punto essenziale è che lo
staff deve continuamente monitorare la scissione impedendo che essa ostacoli il
trattamento, rovini il morale dell’équipe e danneggi in maniera irreparabile
certe relazioni interpersonali tra i componenti dello staff.
Se gli operatori non sono in
grado di riconoscere la scissione quando si sviluppa, e le relative induzioni,
la gestione della situazione può diventare difficile.
Nelle discussioni sul
controtransfert, i membri dello staff vengono incoraggiati a lavorare nel senso
del contenimento degli aspetti proiettati dall’utente, piuttosto che agirli.
Sentimenti molto intensi
verso gli utenti dovrebbero essere considerati come materiale utile per la
discussione e la supervisione, piuttosto che come reazioni proibite che vanno
tenute nascoste ai colleghi. Sviluppando una comprensione del meccanismo della
scissione, i membri dello staff possono imparare a evitare di utilizzarla,
rifiutando di accettare l’idealizzazione che colluderebbe con la svalutazione
degli altri componenti dello staff.
CONCLUSIONI
Secondo l’ esperienza
pluriennale, lavorare in gruppo, utilizzando strumenti quali la supervisione,
affiancata a un’analisi personale, permette all’operatore di poter scindere e
riconoscere i propri stati emotivi da quelli degli utenti.
Per comprendere e
intervenire meglio nelle situazioni in carico, è necessario per gli operatori dare importanza e
rivalutare la famiglia d’origine, i genitori degli utenti, e di conseguenza
“perdere loro di valore”, di interesse, evitando così di sostituirsi alle loro
famiglie, come invece viene richiesto sempre più spesso, in modo più o meno
esplicito, specialmente nell’assistenza domiciliare.
L’équipe dovrebbe instaurare
e portare avanti uno spirito di aperta comunicazione e di rispetto riguardo
alle differenze individuali; dovrebbe cercare di portare alla luce ed esaminare
i disaccordi all’interno dello staff, inoltre pensare con fiducia che i
sentimenti negativi possono essere contenuti all’interno dei rapporti
interpersonali senza conseguenze disastrose.
Nel corso del lavoro tutti i
partecipanti dovrebbero avvicinarsi l’uno all’altro assumendosi le
responsabilità delle scelte che fanno sentendosi degli operatori ragionevoli e
competenti che si prendono cura del benessere della persona a loro affidata.
Quando questo approccio
funziona il gruppo sente che ciascun membro dello staff ha portato un tassello
del mosaico, così da rendere l’intero quadro più chiaro (Burnham, 1966).
E’ indispensabile inoltre,
tenere sotto controllo certi segnali d’avvertimento:
1) quando l’operatore è inusitatamente
punitivo nei confronti di un utente;
2) quando al contrario è insolitamente
indulgente,
3) quando un operatore difende ripetutamente
un utente da commenti critici degli altri membri dello staff;
4) quando un
membro dello staff ritiene che nessun altro sia in grado di comprendere
l’utente.
Quando i membri dello staff
riescono a vincere il loro orgoglio e ad accettare la possibilità di essere
coinvolti in un’identificazione inconscia con aspetti proiettati dell’utente,
possono iniziare a empatizzare con i sentimenti e le prospettive dei loro
colleghi.
Questa disponibilità a
prendere in considerazione il punto di vista altrui può portare a un lavoro
cooperativo nell’interesse dell’utente. Potendo affrontare le differenze tra
loro in buona fede, i membri dell’équipe forniscono un’atmosfera ambientale
nella quale le “buone” esperienze predominano su quelle “cattive”, condizione
essenziale per facilitare negli utenti l’integrazione e l’espressione di
sentimenti e emozioni ambivalenti e contraddittorie.
Sintesi tratta dalla
Tesi a cura di Maria Galantucci e Marco
Terni
“Le induzioni emotive
fenomeno e risorsa nella relazione terapeutica” Master triennale in Pedagogia Clinica
l
confronto/scontro tra l'individuo e il gruppo
di Simona Negro
Questo breve contributo è
stato presentato in occasione di un seminario di studio promosso dalla Scuola
di Specializzazione in Psicoterapia C.O.I.R.A.G. in collaborazione con la
scuola secondaria superiore “Euclide” di Bari. L’obiettivo della comunicazione
è stato quello di offrire alcuni spunti di riflessione sul rapporto tra
individuo e gruppo, come si evince dal titolo, partendo da una semplice
domanda: quali e quanti sono i gruppi che vengono in mente pensando alla
propria esperienza personale?
Provando a rispondere viene
in mente, primo fra tutti, il gruppo familiare, con i propri miti, le proprie
storie, i propri codici educativi, le matrici culturali di riferimento; poi ci
sono i compagni di scuola, ma anche il gruppo dei docenti e, allargando lo
sguardo, l’intera organizzazione scolastica nel suo complesso, con le sue
dinamiche e il proprio specifico modello di apprendimento/insegnamento e,
ancora, certamente il gruppo di amici, così come i compagni di squadra, se
qualcuno pratica uno sport di gruppo.
Viene da dire, allora, che
la dimensione individuale è imprescindibile da quella collettiva, con cui
costantemente si intreccia: facciamo sempre parte di un gruppo.
Se ci pensiamo bene, a
volte, anche il tempo trascorso da soli può essere speso per preparare
l’incontro con gli altri.
Non solo. Cosa ci succede
nei diversi contesti? A casa, a scuola, con gli amici, ci capita di mettere in
gioco aspetti diversi della nostra personalità, modi di interagire anche
contraddittori e ambivalenti…possiamo essere figli disordinati, ma allievi
diligenti, amanti infedeli ma amici per la pelle, studenti annoiati ma sportivi
appassionati…cosa vuol dire tutto questo? Che possiamo davvero assumere
identità differenti a seconda del contesto o dei contesti?
Certo è, che a volte il
gruppo è una cornice rassicurante, la garanzia di non essere soli, il piacere
di condividere emozioni, paure e desideri, sogni e speranze; altre volte, il
gruppo è un interlocutore inquietante, un posto dove ci sentiamo a disagio,
quasi un organismo con leggi sue proprie, che può imporre codici
comportamentali anche distruttivi, che induce alla rinuncia di aspetti
personali in funzione di obbiettivi collettivi.
Per esempio in una
situazione come quella da stadio, migliaia di persone possono ritrovarsi
insieme, emozionarsi, esaltarsi fino a degenerare in azioni violente…perché
avviene questa sorta di contagio psichico? Cosa ci succede che impedisce di
mettere un freno, di mantenere un livello di consapevolezza individuale e di
filtro razionale?
A ben riflettere trovarsi in
mezzo a così tante persone può sollecitare un vissuto di profonda solitudine,
anche di perdita della propria individualità, fino a provare un senso di
smarrimento e di angoscia, a cui si cerca di rimediare in ogni modo…
Magari individuando un
nemico comune da combattere, contro cui scagliarsi, un’idea, una persona
fisica, spesso un altro gruppo contrapposto…come se per tollerare l’ansia della
dispersione, si cercasse di neutralizzare vissuti negativi e difficili da
tollerare nella ricerca di un nemico comune, quello che Bion ha chiamato
l’assunto di base di attacco-fuga, una modalità di funzionamento basico che
attinge alla parte primitiva più profonda che sta in ciascuno di noi.
Se pensiamo a come il nostro
tempo attuale sia caratterizzato da eventi disastrosi, come esplosioni
nucleari, tsunami, guerre vicine e lontane, che mettono profondamente in crisi
le identità individuali e collettive, si può comprendere come lo scivolamento
verso meccanismi primitivi non sia attribuito solo a gruppi patologici ma sia
“semplicemente” l’effetto perverso di interazioni contraddittorie e
ambivalenti.
In un mondo contrassegnato
da ambiguità e contraddizioni, che è forse la cifra di questa attualità, dove
con un click ci si può sentire vicini a qualcuno che abita a 10.000 km di
distanza, ma allo stesso tempo non si rivolge la parola alla persona che sta
seduta accanto alla fermata dell’autobus perché ha un colore di pelle
differente, il rischio di scivolamenti è sempre incombente e induce a riduttive
semplificazioni o rassicuranti scissioni tra il bene dal male, i buoni da una
parte, i cattivi dall’altra.
.Con l’affermarsi della
teoria gruppoanalitica, sviluppatasi a partire dal secondo dopo guerra, si è
fatto strada il concetto che la dimensione sociale determina in maniera
significativa il mondo interno dell’individuo, informando di sé (in base alle
specifiche caratteristiche di contesto storiche, economiche, culturali)
comportamenti, atteggiamenti, pensieri, azioni, sogni di chi vi è nato e
cresciuto.
Secondo Siegfried Heinrich
Foulkes, il fondatore della Gruppoanalisi, l’individuo è un plexus, ovvero un
punto nodale all’interno della rete relazionale e può solo artificialmente
essere considerato isolatamente, come fosse “un pesce fuor d’acqua”.
Esiste infatti una trama, un
sostrato, che accomuna tutti i membri del gruppo, che è la matrice di base,
presupposto essenziale per la comunicazione interpersonale tra di essi.
Ogni individuo, in quanto
membro di un certo nucleo familiare originario, incorpora l’intero insieme di
rapporti, di significati, di “mitologizzazioni” e “fantasmatizzazioni” che tali
rapporti hanno e di cui fa inevitabilmente esperienza nel corso della sua vita,
costruendo una matrice personale specifica.
L’intreccio peculiare di più
matrici personali in una particolare condizione di interazione di gruppo
configura poi una matrice dinamica, specifica a seconda degli scambi
relazionali che si sviluppano nell’hic et nunc del processo di comunicazione di
gruppo.
Queste concezioni segnano un
vero e proprio cambiamento di vertice osservativo, arricchendo e innovando le
riflessioni sul rapporto di interdipendenza tra individuo, gruppo, cultura e,
in particolare, aprono la strada alla teorizzazione di un inconscio sociale,
accanto all’inconscio individuale, dove è il primo che incide sul secondo,
sulla base delle esperienze.
Wilfred R. Bion (1961), un
altro pioniere nell’ambito dello studio sui gruppi, è arrivato a
concettualizzare che è il gruppo a scegliere il proprio leader, individuando
attraverso meccanismi inconsci di identificazione e proiezione la personalità
che meglio risponde ai bisogni espressi dal gruppo.
È quindi osservando le
dinamiche dei gruppi, in particolare dei grandi gruppi, che si può uscire da
una semplice sovrapposizione individuo-gruppo-massa per accedere a una
dimensione di interrelazione che comporta responsabilità a tutti i livelli,
individuale, gruppale, organizzativa, istituzionale e politica.
L’attraversabilità dei
confini gruppali e istituzionali è, infatti, misura della capacità mentale di
tollerare l’ambivalenza e l’ambiguità, di contenere il conflitto, di dialogare
con l’alterità, senza andare in confusione e senza dover ricorrere a
categorizzazioni rigide e stigmatizzanti.
Quando un grande gruppo può
interrogarsi sul senso morale e sulla dimensione estetica dell’esistenza, siamo
di fronte a una condizione di avanzamento. Allora, è anche in grado di farsi
delle domande sulla realtà psichica del “nemico”, cercando di comprendere
perché ha agito in un determinato modo, quali meccanismi lo hanno spinto, ecc…
Il che non significa
assumere un atteggiamento consolatorio orientato al perdono, ma porsi in
un’ottica di comprensione che riconosca la componente di umanità anche nei
peggiori criminali.
Il fatto è che la storia
passata e contemporanea ci sta insegnando che le azioni più orrende, i crimini
più efferati non sono opera di “dèmoni”, avulsi alla razza umana, ma piuttosto
sono il frutto di movimenti di massa che, seguendo il processo della
rivendicazioni di ferite subite, possono riattivare traumi scelti alla ricerca
di una identità minacciata.
Questi meccanismi possono
partire dalla “semplice” eliminazione di parole straniere per giungere
all’annientamento di interi sottogruppi o alla guerra totale contro “gli
altri”, quelli che noi non siamo, per poter definire chi noi siamo.
Sigmund Freud nel 1933,
rispondendo a una lettera di Albert Einstein che chiedeva se la nuova scienza
psicoanalitica potesse contribuire a neutralizzare la spinta aggressiva
dell’uomo evitando le guerre, evidenziava tutto il suo pessimismo, ribadendo
l’esistenza di pulsioni innate di tipo distruttivo.
L’analisi dei fenomeni di
massa insegna che un sistema sociale civilizzato, dotato di istituzioni che
tutelano la giustizia, di ospedali che si occupano di curare chi si ammala,
basato su meccanismi evoluti che prevedono la sublimazione di spinte
aggressive, la capacità di tollerare situazioni ambivalenti, di differire la
gratificazione immediata dei bisogni individuali e di gruppo, di consentire
critiche e favorire la libertà di parola, può rapidamente regredire verso
funzionamenti primitivi di tipo paranoide o narcisistico, alimentando
l’irrigidimento ideologico che separa nettamente i buoni dai cattivi, che
individua capri espiatori nei dissidenti e promuove violenza di massa
socialmente accettata contro gruppi o sottogruppi minoritari.
Essere capaci di riconoscere
l’identità dell’altro, di accettarlo per come è realmente (malato, disabile,
straniero), di promuovere una reale integrazione significa fare i conti con la
dinamica del cambiamento, la paura dell’ignoto, la flessibilità dei confini.
E solo riconoscendo
l’esistenza di un reciproco rispecchiamento tra il mondo interno individuale e
quello del sistema circostante (famiglia, gruppo, istituzione, società), si può
pensare di promuovere un’epistemologia trasformativa, in grado di intervenire a
tutti questi livelli, riflettere sui modelli culturali e attivare scambi.
Altrimenti, si finisce per creare, da un lato, sottosistemi chiusi che
ripropongono all’interno climi culturali di esclusione oppure, dall’altro,
situazioni idilliache ma incapaci di articolarsi con il contesto, una sorta di
cattedrali nel deserto che tuttavia vivono la dimensione dell’emarginazione e
l’impossibilità dell’integrazione con il tessuto sociale.
La storia recente allerta
cioè sul rischio sempre incombente di scivolare verso meccanismi regressivi,
essendo l’equilibrio sociale raggiunto da un determinato sistema non un valore
assoluto ma una condizione dal carattere transitorio, se non si vigila
attentamente e costantemente sui movimenti collettivi e sui fenomeni che
coinvolgono i grandi gruppi.
Bion, W. R. (1961)
Esperienze nei gruppi. Tr. it. Armando, Roma 1971
Foulkes, S. H. (1975) La psicoterapia gruppoanalitica.
Metodo e principi. Tr.it. Astrolabio, Roma 1976
Freud S. (1933) Perché la
guerra?, Opere, vol.11. tr.it. Bollati Boringhieri, Torino 1989
Volkan (2006) Large Group:
identità, processi di regressione e violenza di massa. In: Gruppi. Vol. VIII,
n.° 3. Franco Angeli, Milano.
Demenza
e disturbi correlati
-esperienza in Residenza
Sociale Assistenziale per anziani non autosufficienti-
di Maria Novella Colluto
Problemi di memoria, di
comunicazione e il disorientamento sono solo alcuni dei problemi che deve
affrontare chi sta accanto a chi soffre di malattie degenerative del sistema
nervoso centrale, come la demenza senile o la demenza d’Alzheimer. Per demenza
si intende genericamente una condizione di disfunzione cronica e progressiva
delle funzioni cerebrali che porta a un declino delle facoltà cognitive della
persona. Le statistiche che la riguardano parlano di una condizione che
interessa dall’1 al 5 per cento della popolazione sopra i 65 anni di età, con
una prevalenza che raddoppia, poi, ogni quattro anni, giungendo, quindi, a una
percentuale circa del 30 per cento all’età di 80 anni. Essa non è guaribile ma
curabile, a condizione che venga adottatta una diagnosi precoce e corretta.
Attualmente, in alcune
strutture residenziali – ancora poche, invero - specializzate nel trattamento e
nella cura di questa patologia, è in
fase di sperimentazione uno specifico percorso che affronta le diverse
problematiche scaturite dalla gestione di pazienti affetti da demenza, sia dal
punto di vista sanitario, sia dal punto di vista socio-assistenziale, con tanto
di vademecum del percorso clinico che viene fornito agli operatori, affinché
possano gestire meglio le diverse problematiche legate ai disturbi senili. È
quello che accade presso la RSA Residenza Solaria di Carmiano (LE), una
struttura ricettiva per la Terza Età al passo con i tempi (www.rsa.lecce.it).
La dinamica osservata è la seguente: da principio vengono analizzati i disturbi
dal punto di vista farmacologico; successivamente, si avanzano proposte sulle
dinamiche di prevenzione e sui possibili rimedi di natura anche non
farmacologica. Tra le diverse terapie non farmacologiche attivate per la
gestione dei singoli disturbi una è l’approccio relazionale, attraverso una
serie di strumenti come la terapia comportamentale o le arti terapie.
Prima di vedere in che
consista, è bene analizzare quali siano i disturbi più frequenti nei pazienti
affetti da demenza. Prendendo, dunque, in riferimento la scala di valutazione
NPI, risultano ricorrenti agitazione, aggressività, ansia, delirio, depressione
apatia, irritabilità, allucinazioni, disturbi del sonno. E va detto che questa
analisi può variare in base al cambiamento delle situazioni. Nell’approccio col
paziente, pertanto, è opportuno che l’operatore metta in pratica alcune
indicazioni e regole per non turbare la sensibilità dell’ospite che sta vivendo
una situazione di disagio e di sofferenza. Quindi, l’operatore, dopo aver
valutato innanzitutto il quadro clinico, unitamente alla situazione psicologica
e socio-relazionale del paziente, dovrà avvicinarsi alla persona rispettandone
i tempi, fisici ed espressivi. Dovrà adottare diverse strategie comunicative,
come usare un tono di voce sempre basso, parlare lentamente cadenzando in modo
chiaro le diverse parole; in linea generale, l’operatore dovrà porsi in molto
tranquillo col paziente e, se necessario, rinforzare la comunicazione verbale
con segnali corporei e gestuali molto lenti. Tuttavia, prima di adottare una
particolare strategia, l’operatore dovrà assicurarsi che lo stato di disagio
del paziente non sia causato da fattori esterni, come, ad esempio, da persona
vicina non gradita, da collocazione ambientale non gradita, da richieste
specifiche non soddisfatte, ecc.. In ogni caso, sarà sempre buona norma informare l’operatore di un’eventuale
situazione di disagio o, quando sono presenti difficoltà comunicative, di
quello che si andrà a fare. Talvolta, il comportamento disturbato del paziente
può essere un segnale di comunicazione, l’espressione di una particolare
esigenza o di una richiesta d’aiuto che non potrebbe essere fatta mediante
abilità linguistiche o razionali. Ecco che il paziente affetto da demenza cerca
di esprimere, mediante delle modalità quasi primitive, la necessità di un
proprio territorio confortevole, la necessità di vivere secondo i propri ritmi,
la necessità di comunicare con gli altri, la ricerca di un rifugio sicuro, il
tentativo di nascondere sentimenti come la vergogna o una bassa autostima, la
ricerca di sollievo dal dolore fisico, il desiderio di controllo su di sé e
sull’ambiente, il tentativo di orientarsi, la ricerca della propria identità.
Non bisogna dimenticare, infatti, che la mancata soddisfazione di questi
bisogni porta il paziente ad assumere comportamenti difficili da gestire poiché
egli avverte una sensazione di intrappolamento alla quale cerca di reagire.
Per affrontare i disturbi
comportamentali nei pazienti affetti da demenza è necessario individuare le
possibili cause che li provocano e per questo è indispensabile raccogliere
quante più informazioni, sia dalla voce diretta del paziente, ove possibile,
che dei suoi familiari: tutte notizie che possono aiutare il medico a
indirizzarsi verso una diagnosi, al fine di mettere in luce eventuali disturbi
psichiatrici già presenti prima dell’insorgere della malattia.
I disturbi comportamentali
del paziente vengono valutati mediante un’anamnesi personale, un’anamnesi
patologica, remota e prossima, un’anamnesi psichiatrica e un’anamnesi
farmacologica, rispettivamente svolte da psicologa, assistente sociale e medici
specialisti.
Il primo step è sempre, in
ogni caso, la valutazione per esami: un esame obiettivo, delle indagini di
laboratorio di routine e altre più specifiche, un esame psichico insieme a una
valutazione cognitiva, la valutazione dei sintomi comportamentali riguardanti
il rapporto con l’ambiente.
Da qui, per finire, si va
verso la scelta tra i tre tipi di approcci curativi, se uno solo di essi o un
approccio integrato: l’ approccio comportamentale, con il sostegno psicologico,
l’ approccio farmacologico, necessario e somministrato dai medici, e l’
approccio ambientale, con una serie di interventi mirati all’integrazione (tra
cui la musicoterapia), ma sempre tenendo in gran conto la reale condizione del
paziente, oltre alle sue risorse sane, le uniche su cui tali interventi possono
innestarsi.
di Stefano Centonze
Gli studi finora effettuati
confermano il condizionamento che le emozioni esercitano sulla vita di ciascuno
di noi. Condizionamento che – evidentemente – incide a seconda della diversa
personalità ma anche della diversa cultura di ciascuno, ragion per cui le
emozioni sembrano tanto migliorare quanto complicare la nostra esistenza.
Secondo quanto afferma Moira
Mikolajczak, ricercatrice presso il Fondo Nazionale Belga per la Ricerca
Scientifica (FNRS) e docente presso la facoltà di Psicologia dell’Università
Cattolica di Loviano, autrice nel 2010 di un articolo ‘Emozioni in equilibrio’,
“un’emozione, a seconda dei casi, può aumentare o ridurre le possibilità di
sopravvivenza; migliorare la nostra capacità di prendere decisioni, o ancor più
confonderci; favorire o sfavorire le nostre relazioni sociali”.
Per quanto attiene alla
possibilità di sopravvivenza, le emozioni hanno generalmente un ruolo positivo
perché preparano l’organismo a far fronte a situazioni di vario tipo: se, ad
esempio, l’individuo deve affrontare una situazione di paura, secondo la
studiosa belga, la paura migliora la capacità di rilevare le minacce
circostanti e permette di agire più prontamente al pericolo che incombe
(spirito di conservazione). Allora, emozione negativa forte – che spinge a
comportamenti imprudenti – è la collera che aumenta il tono muscolare e rende
più efficace la difesa.
E’ anche vero che la paura e
la collera – in certi soggetti e in condizioni psicologiche particolari
dell’individuo – riducono, talora in maniera determinante, la possibilità di
sopravvivenza.
Il neuroscienziato
statunitense Antonio Damasio viene in supporto della seconda ipotesi, secondo
la quale le emozioni possono migliorare la nostra capacità di prendere
decisioni ma anche che – in taluni casi- ci confondono.
Damasio ha dimostrato che le
emozioni sono indispensabili perché le persone che hanno subito lesioni nelle
aree cerebrali che sottendono alle emozioni sono, nella maggior parte dei casi,
incapaci di gestire il proprio denaro, la propria vita personale e
professionale o le relazioni sociali: conservano la capacità di ragionamento e
sembrano del tutto normali, benché abbiano grosse difficoltà nel prendere
decisioni.
Le scelte che
quotidianamente facciamo, di solito, hanno poco di razionale, per cui il pasto
quotidiano o la decisione di andare al cinema o rimanere in casa a guardare la
TV non ci impegnano necessariamente come esseri razionali. Piuttosto si direbbe
che, nel compierle, siamo condizionati dalla suggestione del momento. Tuttavia
– sostiene Damasio – se le emozioni accelerano e orientano le nostre decisioni,
esse possono anche ostacolarle o indurci in errore. E cita ad esempio il caso
dello studente che deve sostenere un esame o di un candidato che deve essere
selezionato da un responsabile di risorse umane che ha passato una cattiva
giornata: il risultato per l’uno e per l’altro sarà meno buono che se fossero
stati ricevuti in un altro momento.
L’irrazionalità governa,
secondo quanto sostengono altri psicologi statunitensi, Daniel Kahnemen e Amos
Tversky, chi gioca in borsa che, per esempio, sviluppa la tendenza a conservare
troppo a lungo titoli che, strada facendo e nel corso del tempo, perdono punti.
Che cosa dimostra tutto queto? Che le emozioni negative causate da una perdita
finanziaria sono più intense rispetto alle emozioni positive generate dal
guadagno della stessa somma. Per questa ragione è spiacevole per un azionista
vendere un titolo che perde: rimandando la decisione di vendere le proprie
azioni rimanda la brutta sensazione associata alla consapevolezza di aver
subito una perdita finanziaria.
Infine, l’ultimo – ma non
ultimo - aspetto paradossale delle emozioni è la loro implicazione nelle
relazioni sociali.
Sappiamo le nostre emozioni
sono facilmente leggibili sul nostro volto e costituiscono, quindi, una risorsa
preziosa per il nostro interlocutore, così come quelle dei nostri interlocutori
ci comunicano un insieme di informazioni sui loro bisogni. Nostra moglie, la
nostra compagna ha l’aria triste? Adattiamo il nostro comportamento al suo
umore diventando più premurosi. E’ nervosa? Differiamo ad altro momento
l’annuncio di una cattiva notizia. Ma non sempre sappiamo mediare siffatte
situazioni e spesso non riusciamo a contenere la collera ed esplodiamo in
parole che non avremmo mai voluto dire, compromettendo così un rapporto fino a
quel momento bellissimo.
Le emozioni che talvolta
hanno una “funzione adattiva”, tal altro
sono alla base di numerosi problemi e disordini psicologici e non solo.
Come conciliare queste due
opposte visioni? La prima cosa da fare in siffatte situazioni è CAPIRE LE
PROPRIE EMOZIONI, identificarne la causa e prevenire le conseguenze.
La comprensione delle
emozioni passa dalla nozione di bisogno dell’essere umano secondo la
classificazione che Abraam Maslow ha fatto dei bisogni, classificazione che
parte dai bisogni materiali dal gradino più basso - soddisfazione della fame,
dal guadagno finalizzato alla sopravvivenza - , alla realizzazione sociale,
fino al massimo livello che è l’antirealizzazione, nella quale si identifica il
massimo della soddisfazione personale, sociale e professionale. Quella stessa
autorealizzazione che si traduce nella rinuncia alla gratificazione materiale
(soldi, ecc.) per aspirare alla sola soddisfazione personale, in virtù della
quale l’artigiano, che ha lavorato tutta una vita per migliorare se stesso e la
sua famiglia guadagnando il giusto delle sue richiestissime prestazioni,
rinuncia al compenso pur di poter vincere la gioia e realizzare il palco in
occasione della visita del pontefice nella sua città. La soddisfazione di poter
dire: “Quel palco l’ho fatto io” supera ogni tipo di compenso che da quel
lavoro avrebbe potuto ottenere. Eccole le emozioni più alte, evolute, benché
sempre indicibili, intime, personali ed uniche, che l’applauso dei colleghi e
un bell’assegno non potranno mai eguagliare.