Creatività
nell'invecchiamento
di Paola Maria Taufer –
Psicologa dell'invecchiamento
Fino al secolo scorso era
diffusa la convinzione che la creatività fosse una dote innata dell'essere
umano, propria
solo di pochi individui, a cui la natura aveva fatto dono. Non
si considerava possibile sviluppare questo aspetto, poiché ritenuto di
derivazione genetica
o quantomeno di un
incontro eccezionale tra componenti biologiche ed ambientali. Nell'ultimo
decennio, neuroscienze e psicologia, attraverso lunghi e articolati studi che
proseguono tuttora in varie università del mondo, hanno messo in luce il fatto
che la creatività va considerata in una diversa concezione: non riguarda quindi
poche menti eccezionali, ma è un tratto distintivo del pensiero umano.
Tuttavia, e ben vedere,
sembra che ben poche persone siano creative. Perché? Vi sono diversi fattori
che concorrono allo sviluppo della creatività: da una parte abbiamo la persona,
con il suo bagaglio di conoscenze ed esperienze; dall'altra c'è l'ambiente
sociale e culturale, che può permettere o meno lo sviluppo delle capacità
individuali. Ma prima di entrare nel
vivo della questione, un breve excursus sul concetto.
Che cos'è la creatività?
La creatività è stata
definita da Cesa Bianchi come “un modo di guardare le cose, uno stile di vita
che permette all'uomo di adattarsi, di improvvisare e di cercare nuove soluzioni
ai problemi più svariati”. Aristotele parlava di nimesi, l'imitazione come
istinto dell'uomo e impulso alla creazione artistica: l'arte “fa le cose che la
natura non sa fare o imita la natura”. Come
Aristotele anche Cartesio e più tardi Kant hanno una visone razionale
dell'essere umano e riconducono la creatività ad un aspetto del pensiero. Invece
Nietzsche ripudiava “la tirannide della ragione sugli uomini”, dando grande
rilievo alla poesia e alla musica come arti che sono in grado di esprimere il
vero estro dell'uomo, sciogliendo lo
spirito dionisiaco, capace di forza vitale e impulso creativo totalmente
libero. Più recentemente Goleman afferma: “Non importa chi siate: lo spirito
creativo può comunque entrare nella vostra vita. Esso è alla portata di
chiunque voglia esplorare nuove possibilità.” In effetti oggi la creatività è
ritenuta un aspetto appartenente ad ogni persona e ad ogni età, riconoscendone
le varie forme espressive, relative non solo alle arti, ma anche alle attività
scientifiche e a quelle della vita quotidiana.
Il processo creativo.
La creatività nasce con
l'essere umano, ma richiede di essere scoperta, coltivata e, nonostante
possibili inibizioni culturali e ambientali, mantenuta nella sua piena energia
vitale. Rogers ha identificato tre condizioni interiori che stanno alla base di
un atto creativo:
1. la disponibilità
all'apertura e all'estensibilità dell'esperienza
2. valutare l'azione
creativa come espressione e realizzazione di una parte di se stessi;
3. la capacità di elaborare
e manipolare funzioni e concetti in stretto rapporto con le caratteristiche
dell'esperienza. Quindi possiamo considerare la creatività come la capacità di
inventare, di sviluppare fantasia e di ampliare competenza ed esperienze. Per
essere creativi serve incamminarsi sulla strada della propositività, utilizzare
il pensiero immaginativo anche attraverso il mondo degli affetti e delle
emozioni. Gli studi più recenti hanno evidenziato come il processo creativo sia
molto più articolato di una semplice intuizione e che alla base di esso vi sia
un pensiero misto, in parte divergente e in parte convergente: quindi
intuizione e razionalità, immaginazione e logica. Le neuroscienze ci hanno
mostrato che i due emisferi cerebrali hanno competenze separate: le attività
logico-simboliche sono tipiche dell'emisfero sinistro e quelle fantastiche e
intuitive sono proprie dell'emisfero destro.
Il pensiero misto è una sintesi logica tra i vari aspetti della mente fino ad ottenere
un qualcosa di significativo e di nuovo.
Il processo creativo si
avvale così, nella fase della preparazione e poi in quella della verifica,
della parte conscia e razionale (emisfero sinistro), nelle fasi invece di
incubazione dell'idea e di illuminazione, della parte inconscia e irrazionale
(emisfero destro). La vita è disposta verso l'evoluzione, e ogni persona ha il
compito di crescere e di migliorare attraverso il proprio percorso, attraverso
le proprie più intime aspirazioni e modi di sentire. La creatività rappresenta
la più elevata capacità espressiva dell'uomo, che permette ad ogni essere umano
di interpretare la propria vita come un'avventura unica, inimitabile e
insostituibile.
I diversi tipi di
creatività: arte, scienza e creatività quotidiana
C'è da apporre un distinguo
tra la creatività artistica e quella letteraria. L'artista, in linea di massima
può dare maggiore spazio alla fantasia e all'immaginazione, che sono specialità
dell'emisfero destro del cervello. Tuttavia è necessario ricordare che
l'immagine dell'artista libero, svincolato da ogni regola e che persegue solamente
la propria ispirazione è decisamente errata, benché molto diffusa. In realtà è
vero che la fantasia ha un ruolo predominante nella vena artistica di opere
pittoriche o scultoree, ma non governa l'intero processo creativo. Dobbiamo
ricordare che anche l'espressione artistica è una forma di comunicazione e come
tale si attiene ad un sistema di regole e convenzioni. L'espressione artistica
letteraria merita un posto a sé. Il pensiero del letterato mostra in effetti
una dinamica diversa rispetto a quello presente nelle altre arti. Richiede
un'attività mista ed equilibrata, in cui si combinano il processo
logico-razionale e realista (emisfero sinistro) con i contributi della fantasia
(emisfero destro). Tutti possono scrivere e ottenere un risultato originale,
frutto della propria creatività, nondimeno teniamo presente che la letteratura
viene considerata una forma artistica dura ed esigente per il fatto che
richiede un perfetto controllo di se stessi nell'incessante viaggio tra la
realtà e la fantasia. Si può creare, ma per strutturare un racconto serve poi
che questo risponda ad una logica condivisa.
Gli principali aree creative
dell'arte sono:
• scrittura (poesie,
racconti, aneddoti, diari, articoli)
• pittura (acquarelli,
tempera, pastelli, olio, matite, collage)
• scultura (legno, pietra,
plastica, cartapesta, composizioni varie)
• musica (suonare uno
strumento, da soli o in gruppo, cantare, comporre canzoni)
• film (musiche,
sceneggiatura, fotografia, regia, costumi, ambientazioni)
La creatività scientifica è
fondamentalmente differente da tutte le altre forme di creatività, perché ha lo
scopo di estendere, e magari soppiantare, una vasta conoscenza teorica e
sperimentale. Medawar aveva dato
un'interessante definizione di creatività scientifica: “L'arte del
risolvibile”. In effetti, in questo ambito il tocco creativo viene finalizzato
verso la risoluzione dei problemi. Per questo altra caratteristica è che
risulta prevalente l'attività dell'emisfero sinistro del cervello, ove si
trovano logica e razionalità. Ciò non esclude certo l'uso della fantasia, che
comuqnue rimane più contenuto rispetto alle altre forme di creatività. “Quella
scientifica è una creatività ad alto livello, poiché implica la connessione
originale e insolita di concetti esistenti, che vengono riorganizzati in modo
nuovo” (Giusti).
Creatività e quotidianità.
E' importante riconoscere il
carattere pervasivo e permanente della creatività, poiché “il significato di
creatività si è smarrito disastrosamente nel convincimento che si tratti di
qualcosa a cui ricorriamo occasionalmente”, come sostiene May. Invece si può
trovare anche in un qualsiasi rapporto per es. tra madre e figlio. Lo spirito
creativo si può manifestare in tanti ambiti della vita quotidiana. Creatività
significa realizzare una nuova pietanza in cucina affidandoci alla nostra
immaginazione, ma significa anche per una bimba ed es. trovare un nome
originale alla propria bambola. Tra le possibile creative delle quotidianità,
adatte ad esprimere qualcosa di sé, possiamo trovare
• l'artigianato (cucito,
tessitura, ricamo, bricolage, découpage, decorazione...);
• organizzazione (di
riunioni, circoli, cineforum, spettacoli, viaggi..)
• la fotografia, il
giardinaggio, attività teatrali e di animazione, accudimento di animali,
cucina, orto...)
La creatività
nell'invecchiamento.
Un tempo l'invecchiamento
era temuto e demonizzato come l'ultima fase della vita in cui vi sono solamente
perdite: deterioramento fisico e cognitivo. L'idea diffusa era quella di invecchiamento in un' accezione unicamente
negativa. Tuttavia, gli studi degli ultimi vent'anni in psicologia
gerontologica, hanno dimostrato come il progredire dell'età possa invece
portare con sé molte caratteristiche positive e anche novità. Per esempio, è
stato trovato che nelle cosiddette terza e anche quarta età, vi sia (in
condizioni di invecchiamento normale, non patologico) un miglioramento
dell'intelligenza cristallizzata, un tipo di intelligenza che racchiude la
capacità di fronteggiare vecchie e nuove situazioni avvalendosi del prezioso
contributo dell'esperienza. “La fantasia, le capacità immaginative, la forza
creativa sono presenti in tutte le persone, in ogni condizione ed età”, come
ribadisce Cei.sa Bianchi. Pertanto, se abbiamo superato gli “anta” senza poter
esprimere la nostra creatività, è giunto il momento di porvi rimedi. Come dice
Giusti, “chi non ha esercitato questa funzione cognitiva non ne comprende
pienamente il significato e ignora come si possa migliorare la qualità della
vita attraverso al ricerca e l'applicazione della creatività.”
L'aspetto più importante da
considerare è che per rintracciare il nostro peculiare estro creativo bisogna
essere consapevoli che è necessario rimettersi in gioco. Questo significa
essere propositivi, innovativi, disponibili a mettersi in discussione, curiosi
di conoscere e di modificare la prospettive di vita e di risoluzione dei
problemi. Serve abbandonare percorsi conosciuti, per avventurarsi verso nuove
scoperte, così da poter esprimere liberamente noi stessi e le nostre
potenzialità. E questo avviene in ogni ambito di vita, nelle arti come nella
quotidianità.Continuare ad essere attivi anche dopo essere andati in pensione,
significa sviluppare e mettere al servizio degli altri la lunga esperienza
acquisita e le conoscenze di tanti anni di lavoro, in qualsiasi attività.
Per un benessere duraturo
anche in età avanzata è indispensabile partecipare alla vita sociale, dare un
nuovo assetto alle relazioni familiari, riequilibrando il tempo da trascorrere
insieme e quello da dedicare a se stessi,
sviluppare attività di espressione dello spirito creativo, aspetto
quest'ultimo, che consente più facilmente di interpretare in modo positivo la
propria esistenza, a definirne il senso tra un passato ricco di spunti e un futuro
costellato di possibilità. Da anziani è possibile continuare ad apprendere e
perfezionare le proprie capacità creative, manifestandole in tante modalità
diverse, cercando di scoprire altri itinerari del pensiero e del sentimento. E'
la creatività che consente di rinnovarsi, di imparare sempre: “Invecchio
imparando sempre ogni giorno cose nuove”, diceva Platone, ed è proprio così. Ricordiamo
anche alcuni dei numerosi artisti che hanno creato le loro opere in età
avanzata: Giuseppe Verdi ha composto il Falstaff a 80 anni, Goethe ha scritto
il Faust a 80 anni, il maestro Rubinstein ha tenuto concerti fino a 90 anni,
Mario Monicelli ha realizzato il film Le rose del deserto a 91 anni. Picasso
ebbe una vera e propria esplosione creativa a 87 anni: tra il marzo e l'ottobre
del 1968 realizza 347 incisioni. Questi sono solo alcuni esempi che dimostrano
come ciò che dà significato e forza all'esistenza non varia in senso negativo
con gli anni, ma ne trae eventualmente un maggior arricchimento. Pertanto, come
proclama un vecchio slogan, serve dare più vita agli anni che anni alla vita.
Suoni
diversi: la Musica che nasce dalla sofferenza
di
Veronica Mastromatteo e Rocco Peconio - Musicoterapisti
DA UN PERCORSO MUSICOTERAPICO
CON BAMBINI "ECCEZZIONALI". L’esperienza che sottoponiamo all’attenzione
del lettore riguarda il protocollo di lavoro che ha coinvolto i Servizi Sociali
del Comune di Triggiano (BA) e il Centro Studi “Il Manifesto Musicale” di
Triggiano (BA), sede di interventi di musicoterapia nel territorio
pugliese. Attraverso un protocollo
d’intesa è stato possibile organizzare e attivare per il terzo anno consecutivo un progetto di
musicoterapia che coinvolgesse alcuni
bambini “eccezionali” (Nordoff-Robbins).
Il laboratorio è stato monitorato dalla dott.ssa Capriati, assistente sociale e
referente per la disabilità presso i Servizi Sociali, al fine di ottimizzare il
trattamento musicoterapico e di garantire ai partecipanti e alle famiglie un
valido e gratificante percorso di crescita. La fase iniziale ha riguardato lo
studio dei vari casi e la scelta, da parte dei Servizi Sociali, in accordo con
il modello di lavoro proposto dagli autori, dei bambini da inserire. In questo progetto, i ruoli del
musicoterapista e della educatrice si sono interscambiati per favorire la costituzione
di un team (presenti al progetto anche un docente di pianoforte e uno di
chitarra) in grado di accogliere le richieste di un’utenza differenziata.
Per un bambino affetto da
deficit fisici o psichici, il gruppo inizialmente può rappresentare un sistema
di relazioni in cui la presenza di altri
bambini è vissuta come entità staccata e poco propensa a unirsi per la
“condivisione” di uno spazio, di un gioco, di una emozione.Il laboratorio di
musicoterapia in cui sono accolti i bambini con patologie neurologiche o
psichiche diviene un percorso sonoro, terapeutico, un contenitore dove
accogliere e rispettare il disagio e la sofferenza di ciascun partecipante. Nella
stesura del progetto è stato dato grande risalto al ruolo che la Musica ha
nella relazione e nella comunicazione poiché, in presenza di una disabilità, accade spesso che il
bambino non sviluppi adeguatamente le
proprie capacità comunicative. Queste capacità possono subire un sostanziale
peggioramento quando l’esperienza scolastica si chiude per le vacanze estive,
lasciando il bambino solo con la propria solitudine. Il primo passo è stato
quello di organizzare piccoli gruppi di lavoro inserendo bambini con patologie
diverse ma compatibili (per esempio soggetti affetti da autismo e da disturbo
generalizzato di sviluppo). Il tutto per
favorire, negli operatori, l’osservazione e l’applicazione di modelli di
comportamento adatti alle esigenze del gruppo, non sottovalutando le necessità
del singolo minore. Le sedute prevedono la
presenza del musicoterapista e della educatrice professionale con il
ruolo di supporto alle attività motorie e verbali, a cui si sono aggiunti
allievi del Centro Studi che frequentano i corsi di pianoforte e chitarra. La
presenza di piccoli musicisti ha evitato una sorta di “ghettizzazione” del
bambino disabile, il quale ha potuto così rapportarsi con altre forme di
musicalità, con la conoscenza di strumenti meno semplici da usare, come la
chitarra; soprattutto ha condiviso le proprie emozioni con un gruppo che lo ha
accolto con calore. Gli incontri si sono
svolti due giorni la settimana con una durata complessiva di un’ora a seduta e
ha coinvolto quattro minori per gruppo. La programmazione terapeutica ha posto
come finalità il miglioramento delle capacità relazionali e cognitive dei
singoli pazienti e del gruppo nel suo complesso. Il “gioco dei suoni” che nasce dall’incontro
di partecipanti viene utilizzato in modo creativo e terapeutico dagli
operatori. Il protocollo di lavoro ha individuato come priorità la creazione di
una prima forma di coesione di gruppo, incoraggiando il singolo paziente al
riconoscimento e all’accettazione dell’altro. La premessa che ha animato questo
laboratorio, rispettando i criteri per un corretto intervento riabilitativo
attraverso i suoni, è la convinzione che le “ parti sane e le parti malate del
bambino” possano farcela. Esiste quindi, come principio di base, la
fiducia da parte degli autori che il minore possa migliorare il rapporto con sé
stesso nella prospettiva di una esistenza sempre più orientata verso il mondo
esterno. L’intervento musicoterapico stimola il piccolo paziente a investire
energie e risorse, inducendolo a credere maggiormente nelle proprie possibilità
e a impegnarsi con maggiore coscienza e consapevolezza al raggiungimento di
tali obiettivi. Gli elementi metodologici su cui è stato fondato il percorso
musicale in favore del gruppo sono suddividibili in varie fasi:
Fase 1: il primo approccio
viene dedicato alla scoperta della “musicalità” di ciascun bambino, stimolando
in lui l’ascolto e la produzione vocale di brani più o meno noti a tutti i
bambini.
La modalità dell’ascolto
comprende sia l’aspetto ricettivo che
quello produttivo della melodia allo scopo di evidenziare gli elementi che
potevano essere comuni a tutti (parole, ritmo).
Si sperimenta così una prima forma di relazione di gruppo.
In questa fase l’obiettivo
primario è quello di creare un clima di fiducia tra i partecipanti, dando
sicurezza e disponibilità alle esigenze del singolo bambino, anche attraverso
una modalità direttiva.
In relazione a tale
obiettivo si è cercato di :
־ offrire ai bambini
occasioni per relazionarsi, creando processi socio- comunicativi;
־ aiutare ogni partecipante
a ricercare un proprio mondo sonoro interiore;
־ dare la possibilità di percepire
gli altri attraverso la libera espressione del proprio vissuto sonoro;
־ rafforzare le parti “sane”
del bambino armonizzandole con le parti malate.
Si fa riferimento quindi al concetto di
“improvvisazione sonora in senso clinico”e quindi alla fase del “combaciare”,
in cui si ricalca musicalmente tutti gli elementi legati alla musicalità del
bambino (movimento, frequenza vocale, stereotipie).
Fase 2: la musicoterapia da
ricettiva si trasforma in produttiva nel momento stesso in cui gli stessi brani
ascoltati inizialmente sono stati riascoltati e accompagnati ritmicamente
utilizzando dapprima il corpo nella sua interezza, in seguito coinvolgendo i
vari segmenti corporei.
Non solo, ma stupore e
curiosità hanno destato l’uso di strumenti musicali (strumentario Orff), utili
a facilitare l’espressione ritmico-gestuale e a incrementare il processo
comunicativo. Grande risalto hanno avuto le “onomatopee” tipiche
caratterizzanti lo strumentario a disposizione (tamburelli, maracas, nacchere,
triangolo,ecc.), con l’intento di incoraggiare la vocalità di ogni partecipante
in rapporto ai suoni e rumori del setting musicoterapico. Si è ricorso a esercizi più specifici per
quei bambini che manifestavano difficoltà nell’apprendimento, nell’eseguire una
piccola consegna; infine si presta particolare attenzione al gruppo di bambini
maggiormente in difficoltà nell’uso della voce parlata. Per quanto riguarda le
abilità motorie, si sono proposti esercizi che comprendevano abilità di
ascolto, apprendimento e messa in pratica della consegna come prendersi per
mano in presenza di Musica dall’andamento lento, e formare un cerchio; quando
la Musica acquisisce maggiore velocità i bambini formano un trenino. Suoni, movimento ed emozioni si aggregano in
un processo euritmico affinchè i bambini possano scoprire e assimilare nuovi
rapporti tra la corporeità e lo spazio circostante. Tutte le attività che prevedono un’andatura
nello spazio da coordinare ad una pulsazione data, favoriscono la percezione e
la discriminazione non solo del tempo scandito e dello spazio percorso ma anche
dei movimenti necessari per adeguare il proprio corpo ad un determinato input
ritmico. Il soggetto può essere guidato poco alla volta a sperimentare
variazioni di velocità ed intensità ma anche e soprattutto a creare lui stesso
la pulsazione ritmica alla quale egli stesso, i compagni e il musicoterapista
devono adeguarsi attraverso giochi creativi.In questi esercizi si sono resi
subito evidenti i diversi ruoli all’interno del gruppo: il bambino più attento
e partecipe è stato sin da subito, inconsapevolmente, “eletto” leader del
gruppo, mentre il meno abile ha richiesto un ulteriore aiuto e facilitazione.
I bambini del gruppo tendono lentamente a
imitare il bambino più abile in qualsiasi
suo movimento, dal gesto involontario, all’andatura legata alla Musica. Si osserva anche che nelle sedute in cui il
piccolo “leader” risulta assente, la situazione del gruppo diventa caotica.
Nessuno dei partecipanti, infatti è in grado di assumere il ruolo di leader e
per far sì che l’esercizio venga svolto con ordine è necessario una presenza
più incisiva degli operatori. Nel laboratorio si è fatto uso di numerose
filastrocche con facili ritornelli che, per la loro ciclicità, stimolano la
ripetizione e la memorizzazione di semplici parole.
E’ un'attività che risulta
molto utile nei casi di ritardo del linguaggio e nel disturbo della memoria. Inoltre
suonare su una canzone che piace e' gratificante e facilita la possibilità di
lavorare su un determinato compito; ad esempio quello di condurre i bambini ad
acquisire una maggiore consapevolezza del proprio corpo attraverso una maggiore
coordinazione motoria. Intonare una filastrocca in cui si descrivono e si
indicano i segmenti corporei è un esercizio molto utile oltre che divertente.
Attraverso le filastrocche si esaltano gli aspetti del cantare che favoriscano
la concentrazione e le potenzialità attentive; per questo motivo abbiamo
chiesto ai bambini di porre attenzione alle variazioni proposte sulla
filastrocca musicata: cantare forte-lento, forte-veloce, piano-lento,
piano-veloce; o ancora cantare rallentando e passando da veloce-fortissimo a
lento-pianissimo e viceversa Eseguire un esercizio di coordinazione (per
esempio una sequenza precisa su vari strumenti da ripetere più volte) risulterà
meno pesante se, nel mentre, si può cantare la canzone preferita. Su persone
con difficoltà espressive, questa attività può diventare una modalità
stimolante tanto da indurre a sciogliere le loro resistenze e aprirsi con
fiducia. Un importante approccio
terapeutico è, per un bambino disabile,
il rispetto del silenzio: non suonare lo strumento o fermarsi nel caso
in cui si sta compiendo un esercizio motorio, quando d’improvviso la musica smette di esistere è un modello di
ascolto attivo che implica attenzione e partecipazione. Questa abilità si
ripete anche nel momento in cui si chiede ai partecipanti di accompagnare il
ritmo musicale con il proprio strumento, rispettando il proprio turno oppure
stando in silenzio e ascoltare il
compagno che suona. L’ascolto dell’altro favorisce l’acquisizione del senso
della successione, della sequenzialità, dell'ordine e del rispetto delle
regole. Al termine dell’esperienza, alla presenza dei genitori e della dott.ssa
Antonia Capriati, toccante e
significativa è stata la partecipazione di tutti i bambini alla lezione aperta
di fine corso organizzato dal Centro Studi “Il Manifesto Musicale”. Insieme
hanno cantato, suonato e hanno condiviso l’emozione del “fare Musica” attraverso
un sottile gioco di spontanea creatività. Una esperienza toccante sotto il
profilo umano e musicale che sancisce, ancora una volta, il ruolo essenziale
della Musica come “arte della comunicazione” nel difficile cammino del bambino
disabile verso la società odierna.
Trattamento
del disturbo di panico con la Terapia Grafica digitale (TGD)
di
Alfredo Pacilio - Arteterapista
Il disturbo di panico
viene diagnosticato quando si verificano frequenti attacchi di
panico in assenza di una causa che li renda prevedibili, seguiti
da un mese o più in cui il soggetto
vive costantemente preoccupato per la possibilità di un nuovo attacco, e
tali sintomi non sono attribuibili all’effetto
di sostanze stupefacenti o di altro tipo, ne ad una condizione medica generale
e neppure ad un altro disturbo mentale. Il
DSM-IV-TR definisce l’attacco di panico come – un periodo preciso durante il
quale vi è l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore,
spesso associati con una sensazione di catastrofe imminente, caratterizzato da
sintomi come dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto, sensazioni di
asfissia, o di soffocamento, e di paura di ”impazzire” o di perdere il controllo-
Il panico è una condizione in cui si anticipa, vivendola
come presente un esperienza negativa che si giudica imminente . Ciò che
distingue il panico dall’ansia riguarda fondamentalmente la prossimità
temporale attribuita all’evento negativo
atteso, che nel panico è considerato vicinissimo, mentre nell’ansia più distante. La sofferenza prodotta dal dolore immaginato
ossia dalla paura, si differenzia dal
dolore in se per l’imprecisione con cui nell’immaginazione il dolore si
manifesta. Questa imprecisione rende
spesso più insopportabile la sofferenza
della paura che l’esistenza reale
del dolore temuto.
Negli attacchi di panico
inaspettati, che sono distintivi del disturbo di panico, l’imprecisione diviene
assenza di qualunque fattore situazionale scatenante, e il tema della
paura sin dall’inizio dell’evento è la
paura stessa. Ma anche nelle forme patologiche di panico in cui esiste una
situazione innescante, la paura si
autoalimenta e attiva dei circoli viziosi in cui ciò che si teme se non è la
paura stessa sono le sue manifestazioni fisiologiche e le loro conseguenze, per
cui, ad esempio, la tachicardia viene considerata da alcuni pazienti capace di condurre ad un
infarto e la confusione mentale come scivolamento nella pazzia. Nel disturbo di
panico può persino avvenire un inversione sequenziale tra cause ed effetti, in
cui la presenza di un pericolo viene dedotta da quella dell’ansia. Quindi in
chi soffre di tale disturbo, il solo pensiero – e se adesso mi venisse un
attacco di panico?-può diventare così terrificante da scatenare un attacco di
panico. Diviene dunque evidente che, la trasformazione di un esperienza di
panico nel punto di partenza di un processo patologico, avviene a livello della
cognizione e che tale processo consiste in interpretazioni erronee relative
alle conseguenze del panico e alle sue manifestazioni fisiologiche. Convinzioni errate,
del tipo - La confusione mentale conduce alla pazzia- danno luogo ad una serie di comportamenti
protettivi diretti ad evitare ciò che si teme; tali comportamenti, consistono
in evitamenti, distrazioni ,fughe, prevenzioni, attenzione selettiva e
smentite. Per tale motivo al fine di interrompere i circoli viziosi, la terapia
cognitiva parte dall’individuazione dei comportamenti protettivi messi in atto
dal paziente, per poi refutare le convinzioni erronee da cui dipendono. Nell’trattare il disturbo di panico mediante
la TGD si assume come premessa il fatto
che alcune o tutte le credenze erronee
relative alle conseguenze del panico e alle sue manifestazioni fisiologiche possono esistere
a livello inconscio, per cui all’inizio dell’trattamento si mira a far emergere alla consapevolezza
quei pensieri che nella storia del
paziente resero un esperienza di panico l’inizio del primo attacco di panico; a tale scopo si
parte dalla creazione di fotocollages digitali rappresentanti delle situazioni in
cui il soggetto considera sia
possibile provare panico, per poi
chiedergli di riferire quali crede sarebbero in quelle
circostanze i suoi pensieri e i suoi
comportamenti. Quando si presenta nei suoi commenti il riferimento ad una condotta o ad un
pensiero che non riguarda più l’evento
temuto in se, ma bensì le credenze
erronee relative alle conseguenze del
panico o alle sue manifestazioni
fisiologiche, esso diviene immediatamente l’oggetto della terapia, che deve
mirare alla sua modificazione. I pensieri ingannevoli relativi alle reazioni fisiologiche a
situazioni stressanti o imbarazzanti, ossia a risposte quali la sudorazione,
l’arrossire, l’accelerazione del battito cardiaco, il tremore ecc, nel momento
in cui divengono a loro volta eventi le cui conseguenze sono considerate catastrofiche, vengono
trattati producendodelle versioni “
artificiali “ delle reazionida cui
derivano, che vanno abbinate alla visualizzazione del fotocollage che aveva
suggerito l’ idea errata. Ad esempio si può provocare l’arrossamento del volto
del paziente facendogli avvicinare per qualche secondo, il volto ad un
termosifone, e poi riproporgli la visione dell’ immagine che aveva suggerito la comparsa dell’idea di
arrossire e le sue gravi conseguenze, e
suggerirgli quindi di vivere con la stessa indifferenza con cui vive il suo rossore artificiale quello che
si produce in talune circostanze stressanti, e come da tale sua indifferenza è
molto probabile consegua quella di chi osserva il suo rossore. L’ esposizione
alla situazione innescante partendo dal
suo grado minimo di realismo e intensità, ossia da quello relativo ad un
immagine, se diviene assolutamente tollerabile, e i circoli viziosi a cui in un
principio da luogo, disinnescabili, può
essere seguita da ricostruzioni via via più realistiche che passando per la creazione di ambientazioni virtuali in 3D
realizzate in collaborazione con il paziente, culminano in situazioni
reali. La ripetizione di tali esercizi oltre ad essere vantaggiosa a livello cognitivo, dà origine
a dei positivi condizionamenti in cui si produce l’associazione mentale
tra la percezione fisica sperimentata e la situazione vissuta, che in quanto
familiare e superata diviene sempre più tollerabile. La depersonalizzazione è
un sintomo che spesso compare nel disturbo di panico, e consiste in un senso di
lontananza o distacco dai propri vissuti emotivi, frequentemente confuso con
un indebolimento del senso di sé, ma che
va inteso invece come un consolidamento del sé-osservatore, la cui esistenza è
inconcepibile al difuori della contrapposizione dove si distingue da ciò che
viene esperito. La depersonalizzazione non comporta quindi necessariamente sofferenza. L’afflizione,
che come sintomo di un disturbo di panico la depersonalizzazione implica, si
genera a livello cognitivo, derivando in questo ambito dal tentativo di fuggire
ciò che causa dolore, e che in quanto
atto associato al dolore diviene anche esso temuto. Quando si occupa di questo sintomo la TGD
mira a convincere il paziente del fatto
che la dissoluzione del sé non
può derivare dalla depersonalizzazione, in quanto essa consiste in un processo
inverso, in cui il niente dell’essere rivolgendo il suo sguardo verso se stesso
si crea e consolida in esistenza, contrapponendosi ai fenomeni da cui si sente
separato. Anche nel trattamento di
questo sintomo la TGD tenta di produrre
delle esperienze in cui ciò che si teme venga sperimentato in una modalità controllabile e disattivabile
in qualunque momento. Come avviene per
la costruzione di qualunque esperienza utilizzata in TGD anche quelle relative alla
depersonalizzazione devono nascere in buona misura dalla creatività ed esigenze
del paziente, per cui l’esercizio
qui di seguito descritto va considerato come un esempio.
“Ipertrofizzazione dei
neuroni specchio” è il nome di un esperienza che progettai nel 2003 e che sin
da allora fu pensata sia con finalità terapeutiche che come un opera di
Neuropsicoarte - la poetica da me ideata nel 2003- Quest’ opera fu presentata
per la prima volta nella mia personale al Asfalto Teatro di lecce nel2007.
L’esperienza veniva fatta da seduti mentre si guardava un video, in cui
due mani
massaggiavano delle gambe che il soggetto osservava sovrapposte alle sue, mentre egli
stesso riceveva un massaggio analogo.
Anche in questo caso l’esperienza può essere intensificata
attraverso l’utilizzo della realtà virtuale
in 3D . L’uso che la TGD fa delle esperienze virtuali, nel trattamento
del disturbo di panico,consiste nell’associare
suddette esperienze alla
produzione anaffettiva delle manifestazioni
fisiologiche del panico. Questi due elementi, pur essendo contemporanei tra
loro si mantengono in parte percepiti
come autonomi, per cui il soggetto esercitandosi in questi compiti mira a trasferire tale relativa separatezza nella sua vita quotidiana, e disinnescare così i circoli
viziosi che negli attacchi di panico
riguardano reazioni quali: tremori,sudorazione e tachicardia ecc. Va sottolineata in fine l’importanza che la TGD assegna agli aspetti creativi delle ambientazioni
e degli oggetti virtuali. Nella TGD l’operatore deve possedere non solo le
conoscenze necessarie per gestire degli ambienti virtuali preconfezionati, ma deve anche essere un esperto in
modellazione e animazione 3D capace di
modificare nel modo più ampio e veloce possibile ogni aspetto di ciò che
egli stesso o il paziente propone o realizza. Lo sviluppo delle capacita
creative, nella TGD, e più in generale nelle
Artiterapie, sia per quanto riguarda il paziente che il terapista, non
rappresenta un beneficio parallelo agli scopi della terapia , ma piuttosto uno
strumento fondamentale da utilizzare per superare ogni problematica psicologica
o esistenziale.
I
primi rapporti sentimentali
di
Patrizia Mattioli - Psicologa e Psicoterapeuta
Una fase sperimentale
Per i rapporti di coppia
l'adolescenza è un periodo di sperimentazione, caratterizzato dalla tendenza a
provare e riprovare, in situazioni in cui per mancanza di esperienza, le cose
spesso non vanno bene al primo tentativo. Si vivono delusioni che per molti
sono la spinta a riprovare, per altri invece diminuiscono il desiderio di
ritentare per paura di altre delusioni. Molte sperimentazioni sono già state fatte
nelle amicizie e nel gruppo di coetanei dello stesso sesso. Ora si entra nella
comitiva di cui di solito fanno parte sia i ragazzi che le ragazze.
La comitiva
Dato che la maturazione
puberale avviene nelle ragazze in media due anni prima che per i ragazzi, esse
entrano prima dei coetanei nella formazione sociale della comitiva e orientano
i loro interessi di tipo affettivo e sessuale su ragazzi che hanno qualche anno
più di loro. In comitiva soprattutto si parla, ci si confronta sugli argomenti
più disparati (dalla scuola alla musica, dallo sport al cinema, ecc…), ogni
membro del gruppo può ascoltare, osservare, conoscere sempre meglio gli altri
componenti del gruppo, soprattutto quelli dell'altro sesso. Partecipare alla vita di comitiva permette di
imparare e perfezionare la capacità di stabilire rapporti con coetanei
dell'altro sesso e di provare ad entrare in rapporto con loro a vari livelli:
dalla conversazione, alla battuta scherzosa, all'attenzione affettuosa, fino al
corteggiamento. Si comincia a sperimentarli senza esporsi troppo dato che si
sta in gruppo. E' in comitiva che in genere nasce il primo rapporto
sentimentale tra un ragazzo e una ragazza, che può intensificarsi fino a che i
due formano una coppia fissa che si ritrova anche al di fuori della comitiva.
Spesso l'esperienza è fatta insieme ad altri nel senso che due ragazzi e due
ragazze decidono di ritrovarsi per stare insieme al cinema , o per fare una
gita, con la possibilità per le coppie poi di isolarsi, ma di tornare a fare
gruppo se durante l'esperienza a due uno dei membri della coppia si trova in
imbarazzo o in ansia e non riesce a fronteggiarli. A 19 anni circa la metà
degli adolescenti ha vissuto la prima esperienza di coppia fissa nella
comitiva, altri l'hanno vissuta indipendentemente dalla comitiva, e alcuni di
loro l'hanno vissuta più volte.
L’innamoramento
La sperimentazione nel
periodo adolescenziale per quanto riguarda i rapporti sentimentali è ancora più
evidente se si pensa all'innnamoramento: a 19 anni quasi tutti gli adolescenti
dichiarano di essere stati innamorati almeno una volta, molti di loro si sono
innamorati più volte, affrontando ogni volta l'esperienza in modo diverso. In
questo periodo un importante momento preparatorio in questo processo di
apprendimento sociale è costituito dal sognare e fantasticare sulla persona
verso cui ci si sente attratti e nel guardarla. La maggior parte dei ragazzi e
delle ragazze durante il tempo libero frequenta luoghi dove è più facile
incontrare coetanei dell'altro sesso. Ci
sono luoghi dove il comportamento di approccio deve essere più esplicito, come
i pub o le discoteche, situazioni dove l'approccio è più facile, come ad
esempio nella squadra sportiva o nella comitiva, e luoghi in cui i contatti
avvengono in modo quasi automatico, come a scuola.
Il primo approccio
Al primo approccio, in
genere ci si aspetta che sia il ragazzo ad avvicinare la ragazza (che aspetta
richiamando in qualche modo l'attenzione), soprattutto nei pub o nelle
discoteche, nei luoghi cioè più impersonali.
I ragazzi ritengono di solito di dover prendere l'iniziativa e
preferiscono che la ragazza aspetti, anche se alcuni di loro, quelli che magari
hanno un pò più di paura a fare il primo passo, apprezzano che la ragazza collabori
attivamente al contatto. Alcuni ragazzi poi sentono il peso del dover prendere
l'iniziativa, perché pensano che è l'unica cosa che ci si aspetta da loro e che
devono dimostrare così di essere uomini e reagiscono a queste pressioni
assumendo un atteggiamento da duro che qualche volta sfocia in comportamenti
antipatici nei confronti delle ragazze. E' un modo di superare l'imbarazzo e la
vergogna. Alcuni ragazzi pensano che le ragazze dicano sempre no al primo
impatto, per principio o per non sbilanciarsi subito, per cui si comportano in
maniera aggressiva per raggiungere il proprio scopo pensando di dover dare poco
peso al loro consenso. Atteggiamenti di questo tipo nascondono in genere
l'incapacità di subire ed elaborare un rifiuto.Le ragazze invece pensano di
dover prevalentemente attirare l'attenzione prendendo poche iniziative,
cercando di creare le condizioni per far avvicinare i ragazzi. Non sanno ancora
bene cosa comporta avere una relazione quindi c'è molta curiosità ma anche
molta paura: per esempio di essere trattate male dal ragazzo, o di entrare in
intimità fisica con lui. Per una ragazza è importante che un ragazzo la scelga,
la stimi e la consideri importante.
La paura del rifiuto
Alla prima esperienza in
ogni caso, la paura di sbagliare è maggiore e si cerca di avere il maggior
numero di informazioni sulla probabilità di successo dell'approccio: si chiede
agli amici, si cerca di osservare l'altro per capire se è interessato (mi
guarda spesso, si siede spesso vicino a me, parla spesso con me,....). Fare un
buco nell'acqua sembra più drammatico (anche se più probabile), la prima volta,
quando appunto si cominciano a valutare le proprie capacità di entrare in
relazione con l'altro sesso, che non dopo, se e quando l'esperienza e qualche
successo hanno rinforzato la propria autostima. Molti ragazzi e molte ragazze
hanno più difficoltà di altri ad avere contatti con l'altro sesso e
attribuiscono a qualche proprio difetto fisico il non essere notati dalla
persona che interessa. Spesso non sanno come comportarsi per fare in modo che sia
più probabile che questo avvenga. Quindi rimangono in disparte per paura che il
loro presunto difetto venga notato da tutti. Più che a difetti personali le
difficoltà di contatto sono dovute alla mancanza di esperienza e alla paura di
essere respinti, anche questo spesso è legato all'inesperienza: basta anche un
velato rifiuto a bloccare i tentativi di approccio anche con altre persone,
limitando così ogni possibilità di successo. Anche un volta che sia stato
superato il problema del primo contatto molti ragazzi e molte ragazze si
sentono insicuri quando si trovano in compagnia di un coetaneo dell'altro
sesso. Pensano di non sapere cosa dire, hanno paura di annoiare, si chiedono se
il/la partner lo/la troverà attraente, cosa si aspetta e così via. Così molte
delle energie vengono impegnate nel non far vedere questa insicurezza per paura
di essere giudicati male, magari presi in giro o derisi. Soprattutto i ragazzi,
quando una ragazza è un pò incerta non sanno bene come affrontare la
situazione: se lasciar perdere o insistere. Queste incertezze in genere
diminuiscono man a mano che si acquisisce maggiore esperienza. Alle prime armi
si tende a lasciar perdere interpretando l'incertezza come un rifiuto, andando
avanti con le esperienze si può capire che un'incertezza può significare anche
altre cose: che magari la ragazza non è pronta per una storia, oppure che non
si aspettava l'approccio e ha bisogno di tempo per decidere, ecc.... e allora
si può provare ad insistere oppure si può aspettare. E' meglio se si può fare
esperienza potendo contare sull'appoggio del gruppo di amici, ci si stimola a
vicenda, ci si può aiutare per organizzare incontri con la persona che
interessa, si può parlare delle proprie esperienze così che ognuno può imparare
qualcosa anche dall'esperienza dell'altro e soprattutto ci si può appoggiare
così che ad un'esperienza andata male non si dia troppa importanza. Fino a dove spingersi? Quando un ragazzo e
una ragazza poi cominciano a flirtare si chiedono fino a che punto vogliono
spingersi con il partner. I ragazzi desiderano in genere arrivare presto ad
avere rapporti sessuali completi, le ragazze invece sono più caute e
preferiscono tempi più lunghi. Spesso i ragazzi hanno la prima esperienza
sessuale con una ragazza più grande, che possono anche non rivedere più. Anche
le ragazze preferiscono fare la prima esperienza con un ragazzo più grande, ma
con il quale magari hanno già un rapporto sentimentale. I rapporti sentimentali
durante l'adolescenza e la prima giovinezza oltre ad essere importanti per
l'esperienza che ne deriva, hanno anche il ruolo importante, di fornire
conferme al proprio senso di identità personale che si va via, via sempre più
strutturando. Anche per questo all'inizio si ha più paura. Come avviene la
scelta del probabile partner? Come avviene che siamo attratti da alcune persone
e non da altre? In generale possiamo dire che nel corso della vita siamo
portati a stabilire diversi tipi di rapporti mano a mano che progrediamo verso
la maturità. A volte i cambiamenti si possono verificare molto lentamente e
quello che ne risulta è a volte una successione di rapporti più o meno simili.
La scelta del partner
Nel periodo adolescenziale
la scelta viene fatta soprattutto in base all'aspetto esteriore del partner,
che non significa necessariamente o soltanto aspetto fisico: tutti o almeno
molti sono attratti dal ragazzo leader o dalla ragazza più carina della classe.
Essendo un periodo di grandi insicurezze, proprio perché caratterizzato dalla
sperimentazione su tanti campi sociali, la convalida esterna attraverso le doti
pubblicamente riconosciute dell'altro può aiutare a compensare queste
insicurezze. Il modo in cui ci vedono gli altri (per esempio come una bella
coppia) fornisce un potente senso di conferma sul piano personale. Rapporti di questo tipo tendono a durare
poco e ad essere sostituiti, man a mano che prosegue la maturità, da rapporti
con persone che meglio si adattano alle proprie caratteristiche psicologiche
personali. Nei rapporti confermanti, è importante che l'altro non sia troppo
disponibile. Più è difficile da raggiungere, più risulta confermante. Il
criterio di scelta del partner in base alle sue caratteristiche esterne non
deve essere considerato come una forma di immaturità, ma come una fase di
crescita, possiamo parlare di immaturità soltanto se si utilizza ancora lo
stesso come unico criterio in età più adulta. I rapporti adolescenziali hanno
aspetti positivi e negativi. Quando si sceglie un ragazzo o una ragazza in base
alle conferme che il rapporto può fornire agli occhi degli altri (cioè se il
rapporto permette di sentirsi considerati perché si sta con una persona che
viene considerata), ci si sentirà sempre un pò inadeguati. Se si scelgono
continuamente ragazzi o ragazze che
fanno apparire straordinari prima o poi ci si sentirà annoiati o
frustrati. E allora dopo un pò la storia finisce. Finché durano però non c'è
niente di male nel lasciare che un rapporto aiuti a sentirsi più a proprio agio
con se stessi mettendo in rilievo pregi che magari non si pensava di avere,
alimentando così la propria autostima. Quindi
durante l'adolescenza e la prima giovinezza è più facile che i rapporti siano
molti e relativamente brevi e che servano soprattutto a conoscere e maturare e
a sapere chi siamo noi in relazione agli altri.
La fine del primo rapporto
Questi rapporti finiscono
perché uno dei due trova un altro partner che offre conferme maggiori (per
esempio è più bello/bella), oppure perché uno dei due arriva prima alla fase
successiva e comincia a desiderare un partner con cui ha più affinità. Quindi
succede che uno dei due prenda l'iniziativa e l'altro si trovi in condizioni di
subirla senza essere ancora pronto per il passo successivo. In questo caso ne
risulta una sofferenza e un senso di disconferma (dal momento che si interrompe
contro la sua volontà un rapporto confermante). A questo punto può succedere
che la persona lasciata cerchi un altro rapporto confermante che compensi lo
smacco subìto oppure che si tenga lontano dai rapporti affettivi, almeno per un
pò, per paura di soffrire ancora, oppure che stabilisca un rapporto con un
ragazzo o una ragazza che non ha nessuna delle caratteristiche del partner
ideale, ma con cui instaura un rapporto affettuoso che in questo modo svolge
una funzione terapeutica per la ferita subita. Sono rapporti che durano il
tempo necessario a curare la sofferenza. Non si deve dare troppo peso alla fine
dei primi rapporti. Il primo rapporto importante è stato e sarà causa di
sofferenza per la maggior parte degli adolescenti. Appena finisce sembra che il
resto non abbia più importanza che non si riuscirà più a trovare un altro
ragazzo o un'altra ragazza così bello o così bravo o di cui si è così
innamorati. L'esperienza ci dimostra poi che non è così. Il primo amore finisce facilmente per i
motivi che abbiamo detto prima e perché, essendo l'inizio della
sperimentazione, non tiene conto degli elementi che devono essere presenti in
un rapporto per farlo durare che sono prevalentemente quelli di avere in comune
interessi, valori, obiettivi, aspettative, stimoli, bisogni. Il rimanere amici allevia spesso la
sofferenza per la fine del rapporto. Il potersi frequentare ancora, consente da
una parte di lasciare aperta la strada per una eventuale ripresa del rapporto,
dall'altra diminuisce il senso di sofferenza in quanto il distacco non è totale
e ciò permette di salvaguardare la propria autostima da penosi sentimenti di
rifiuto. Restare amici infine aiuta ad articolare meglio il motivo della
rottura. In questo periodo è evidentemente possibile restare amici perché non
sono ancora entrati in gioco sentimenti troppo profondi.
Il
ruolo dell’analista: un cammino nella sofferenza
di
Maria Galantucci - Psicologa e Psicoterapeuta
Cosa spinge una persona a
diventare analista?
Molto probabilmente il
desiderio di capire se stessi e capire gli altri. La necessità di conoscere e
comprendere gli altri non nasce mai per caso, deriva piuttosto dal fatto
che l’esistenza non scorre più placida e
tranquilla ma è costellata da ostacoli o, comunque, da una dissonanza di fondo.
Spesso le asperità con cui è possibile confrontarsi sin dalle fasi più precoci
della vita costringono a porsi continuamente domande, interrogativi che
permettono in modo direi quasi “naturale” di capire l’altro. Potremmo parlare
di una sorta di imprinting iniziale che scaturisce, ad esempio, dalla
sensazione di non essere compresi dai nostri genitori, o dalla impossibilità di
comprenderli noi stessi. Di simili esperienze e sensazioni rimane allora questo
imprinting, un “marchio” che porteremo con noi tutta la vita. Aldo Carotenuto ha parlato e scritto di
questa particolare dimensione, definendola come una “ferita”, una lacerazione
che sanguina continuamente perché non si rimargina mai. Questa situazione
interiore può inizialmente essere giudicata in modo negativo, tuttavia dovremmo
guardare ad essa con occhi benevoli perché, se la ferita si rimarginasse, noi
non avvertiremmo più quella forte e inarrestabile spinta che ci permette di portare
avanti il nostro lavoro. Non si può essere psicologi se non si avverte
internamente una problematica che ci spinge ad aiutare l’altro, il bisogno di
“soffrire con i miei pazienti”. Ecco perché posso affermare con certezza che ogni analisi è in
realtà un’autoanalisi : è come se noi, interrogandoci sui problemi dell’altro,
ci interrogassimo continuamente sui nostri problemi. (A.Carotenuto) Se non
avessimo quella ferita sempre aperta non sarebbe possibile né interrogarci sui
nostri problemi, né trovare risposte effettivamente utili alle difficoltà
dell’altro. Se la ferita si richiudesse, non potremmo più dare niente al nostro
paziente, il quale sente di ricevere solo nel momento in cui noi analisti gli
diamo qualcosa che ci appartiene realmente, che fa parte del nostro mondo
interno. Naturalmente, per avviare il paziente sulla strada della trasformazione
psicologica, tutto ciò non può essere sufficiente e per lavorare con criterio
occorrerà mettere a punto specifiche strategie, modalità tecniche, studiare
moltissimo, in modo rigoroso e sistematico. L’esperienza acquisita ha
indubbiamente un valore enorme, tuttavia nel nostro lavoro, forse più che in
ogni altro, valgono molto anche la sensibilità, il tatto e il modo in cui
riusciamo ad impiegarli. L’abilità dello psicologo deriva proprio
dall’esperienza e da una sensibilità particolarmente affinata. Man mano che ci
sviluppiamo come analisti e accresciamo la nostra esperienza, ad un certo punto
troviamo il coraggio di abbandonare le sicurezze fittizie per mettere in gioco
noi stessi.Nel momento in cui ci rendiamo conto di agire in prima persona,
significa che ci siamo “liberati dall’ombra del maestro”: siamo proprio noi che
con originalità ci comportiamo secondo uno stile personale. Non dobbiamo
dimenticare che la ricerca del proprio stile è forse l’unico vero compito. Impariamo
ad esempio ad assumerci la responsabilità del fatto che dalla problematica
psicologica non si guarisce mai ma s’impara a conviverci. E’ molto duro quando
il paziente deve confrontarsi con questa verità. Lo stile personale è ciò che
ci rende veramente unici, inconfondibili, che permette di differenziarci anche
tra una folla di terapeuti, che rende possibile distinguere il singolo in base
allo stile personale che lo caratterizza. Quando qualcuno suona alla porta non
cerca infatti un super-esperto di Freud o di Jung: il paziente in quel momento
desidera parlare con quel terapeuta, con quella specifica persona, e certamente
non con la scuola che abbiamo frequentato o con il fondatore della nostra
dottrina di riferimento. Nel momento dell’incontro fra terapeuta e paziente,
solo questi due esseri umani esistono e se decidono di intraprendere un cammino
insieme ciò accade perché l’incontro di quelle due persone ha funzionato. Acquisire
uno stile personale però non è semplice, è una conquista, il risultato di un
intenso e lungo lavoro: si è contraddistinti da un proprio stile solo dopo aver
lavorato moltissimo. Raggiunto questo livello sarà quindi possibile aiutare
realmente il paziente che, forse per la prima volta, avrà finalmente
l’occasione di confrontarsi con una persona, non con le sembianze di questa o
con il suo bagaglio culturale, ma proprio con un essere umano nella sua
globalità. Il paziente potrà veramente essere aiutato perché non riceverà
risposte filtrate attraverso le conoscenze, bensì risposte autentiche, ossia derivanti
direttamente dall’esperienza del terapeuta. Il vero fine del cammino analitico
è quello che il paziente, sostenuto dal terapeuta, sia messo nella condizione
privilegiata di “inquadrare meglio le ragioni del suo disagio”. Spesso si sente
parlare di guarigione, occorre piuttosto utilizzare termini quali
“contenimento” e “senso”. Quello che i terapeuti fanno è ristabilire la
condizione di fiducia primaria, il paziente potrà riuscire a dare significato a
ciò che gli succede giorno dopo giorno. Il problema con il quale poi ogni
paziente ci impone di confrontarci, e con cui esso stesso è impegnato, è quello
di fare una scelta. “Cosa devo fare?”, “Come devo comportarmi?”, sono questi
gli interrogativi che serpeggiano silenziosi, o che vengono gridati a piena
voce nel setting durante la terapia.
Ebbene, è in quei momenti che dobbiamo ricorrere a tutta la nostra forza: non è
indicando al paziente la strada da seguire, sebbene possiamo già aver
individuato “la migliore”, che lo aiuteremo, non è dicendo cosa deve fare che
gli permetteremo di crescere, non siamo noi che dobbiamo forgiare il suo
destino perché solo lui, vivendo, potrà diventarne l’artefice. Si cerca,
infatti, di far vivere al paziente la dimensione che luiin quel momento sta
attraversando. Così, per esempio, se un paziente confida di “sentire delle
voci”, l’analista non penserà che quelle voci siano il primo segno di una
disfunzione o di una patologia di grave entità, non cercherà di soffocarle e non metterà il
paziente in guardia contro di esse, il terapeuta penserà che si tratti delle
sue voci, della voce del suo mondo interno e che, come tale, ad essa vada
prestata tutta l’attenzione possibile. Se quelle sono le “sue voci”, l’analista
dovrà ascoltarle con lui, leggerle, cercare di tradurle. In conclusione mettere
a nudo il proprio modo d’essere, lavorare utilizzando la nostra individualità,
significa non solo riuscire ad aiutare chi soffre, ma esporsi in prima persona alle insidie, ai
pericoli e alle vertiginose cadute che spesso la terapia comporta. La vera sicurezza non può esserci regalata,
non può essere alimentata dai titoli, dai pezzi di carta, da sofisticate
etichette; in questo lavoro più che mai la sicurezza è una nostra conquista, il
risultato di un coraggioso “mettersi in gioco”. Acquisita questa sicurezza,
potremo riuscire a compiere il passo successivo: dare di ciò che accade una interpretazione
completamente nostra, autentica, svincolata da dottrine o testi; una
interpretazione “rivoluzionaria” perché capace di offrire una nuova lettura
degli eventi.
Sociodramma
e le sue applicazioni
di
Maria Bossa - Psicologa e Psicoterapeuta
Sociodramma e sue
applicazioni in ambito sociale con particolare riferimento alledifferenze
interraziali.
Mai come in questo periodo
si è sentito così forte il bisogno di affrontare i problemi interculturali per
cercare di giungere sempre ad una
maggior integrazione e superamento dei “pregiudizi” interraziali. Il pregiudizio nasce dalla
“cultura” vista come sinonimo di “identita”. Le differenze diventano allora
un baluardo da rivendicare con energia e strumentalizzate a fine politico e di
confronto e separazione.
Da molto tempo le differenze
fra il mondo occidentale ed il resto delle civiltà mondiali seguono un binario
a senso unico. Il mondo occidentale si considera presuntuosamente il portatore
di una cultura vista come linea di “progresso” che va in senso unilaterale dal
mondo occidentale verso gli altri “mondi” considerati ad un livello
tecnologico, scientifico, morale e politico assolutamente di un gradino
inferiore.
Simile pregiudizio vive
all'interno delle altre civiltà mondiali nei confronti della civiltà
occidentale.Quanto possiamo essere
considerati “immorali” dal mondo islamico, lo si è potuto constatare negli
ultimi anni. Per capire questo fenomeno
dobbiamo considerare l'”etnocentrismo”, che consiste nel valutare la propria
“cultura” superiore rispetto alle culture di mondi diversi.
Il proprio gruppo sociale è
sempre il “migliore”.
Questa visione della
“comunità migliore” non lascia spazio al cambiamento, visto come contaminazione
della purezza delle credenze caratterizzanti la società di cui si fa parte. Esempio
di questo sono le stragi ed i genocidi che hanno accompagnato storicamente
l'evoluzione dell'uomo dalla notte dei tempi ad oggi.
L'istinto di protezione del
gruppo che porta, ad esempio, i leoni a sbranare i cuccioli di un gruppo
diverso, è lo stesso contro cui l'uomo così detto “moderno” ed evoluto combatte
da millenni.
Quali sono gli strumenti che
abbiamo per giungere ad una maggior comprensione ed ad un superamento delle
differenze che ci sembrano insostenibili? Innanzi tutto occorre fare una
riflessione:Qualsiasi cultura vista dal di dentro è portatrice di tradizioni,
storie, riti che sono contestabili nella loro unicità e portatori invece di una
universalità che la molto simile proprio alle altre.
Se di una cultura ne
analizziamo i miti e le storia ci accorgiamo che ci troviamo di fronte ad un
sistema dinamico, che risponde agli eventi ed ai bisogni delle persone che ne fanno
parte in modo universale. La differenza nasce “solo” dal fatto che il “diverso”
visto dal di fuori assume connotazioni mostruose, mentre visto dal di dentro è
uno dei “nostri”. Che strumenti abbiamo allora per servirci di questa
conoscenza e rendere questa consapevolezza un ponte che ci porta verso l'altro
tanto mostruosamente diverso da noi? Dobbiamo ricorrere a quelle stesse qualità che portano l'uomo di un
gruppo a capire i propri simili. Una di queste, ad esempio, è l' “empatia” . L'uomo
ha da sempre capacità di mettersi nei panni dell'altro, di sentire attraverso
il sentimento dell'altro.
Ed è questo l'obiettivo a cui dobbiamo tendere
se vogliamo davvero portare la nostra società ad una capacità di contenere e
rielaborare le diverse culture che ci attraversano e in modo irreversibile
tenderanno a infiltrarsi ed ad occupare il tessuto sociale nazionale.
Ma perché
quest'infiltrazione avvenga in modo costruttivo e non distruttivo abbiamo
bisogno di strumenti adatti affinché tutto questo avvenga.
Dobbiamo considerare che la
socializzazione e la comunicazione accadono sempre in un contesto interpersonale.
E quando entriamo in relazione con gli altri smettiamo di essere esclusivamente
individui e diventiamo parti di un sistema. Familiare,
lavorativo,sociale,etnico.
Il sociodramma ci permette
di intervenire in gruppo , attraverso il gruppo e si serve di tecniche psicodrammatiche.
Esso è una variante dello psicodramma, che
come tutti sappiamo, è stato fondato dallo psichiatra Jacopo levi Moreno , nato
in romania ma vissuto a Vienna e poi negli stati uniti, vicino a New York.
Come possiamo definire lo
psicodramma?
Una ricerca della verità
propria e quella degli altri, da parte di un gruppo di esseri umani che
discutono liberamente dei propri problemi, li pongono in comune, li giocano
attraverso una rappresentazione scenica, che permette loro anche di proiettarsi
“fuori” da se stessi e quindi di coglierne con distacco l'essenza. Le tecniche drammatiche , vissute in un
contesto protetto dalla rappresentazione scenica porta alla rielaborazione di eventi interiorizzati
dalla persona in modo conflittuale.
L'essenza della vita
psichica si completa nel gesto, nel non verbale.
Il corpo teorico a cui il
sociodramma fa capo si riferisce alla teoria del ruolo , messa a punto da
Moreno.
In sintesi : il nostro
essere al mondo consiste fondamentalmente in una “messa in scena” . L'individuo
esiste per rappresentare se stesso in relazione all'ambiente fisico/sociale che
lo circonda. ESSERE in senso lato vuol dire INCONTRO con il mondo.Nell'uso
comune il ruolo viene visto come un modo di agire non autentico, dietro la
quale la persona si protegge o si nasconde per agire il suo ruolo sociale. Per
Moreno il ruolo è la personale espressione della personalità dell'individuo ed
esprime il normale adeguamento a vari modelli.
Per Moreno il ruolo viene definito : forma operativa che l'individuo
assume nel momento specifico in cui reagisce ad una situazione in cui sono
implicati persone o oggetti. Ma questa forma che aspetto assume? Per Moreno la
Forma è creata dalle esperienze passate e dai modelli culturali della società in
cui la persona vive. La forma diventa operativa quando si compie qualcosa in un
dato tempo secondo una sequenza di momenti lunga il necessario perchè l'azione acquisti
compiutezza.
Alla nascita il bambino vive
in uno stato di totale confusione fra il se ed il mondo altro da se. La madre
ha una funzione importante nel processo di diversificazione. La prima matrice
di emozione per il bambino nasce dal bisogno fisico. La fame è il
soddisfacimento che nasce dalla sazietà rappresenta il primo adattamento fisico
del bambino. La madre c'è in risposta a questo bisogno ma a volte può anche non
esserci nei modi e nei tempi giusti. Moreno chiama questo stadio iniziale dello
sviluppo psichico come matrice d'identità, che rappresenta il suo universo
indifferenziato , che appartiene all'esistenza ma non ancora alla coscienza. Moreno
lo definisce il 1° universo. Il luogo psichico dal quale emergono vari ruoli
come precursori del se, fino alla sua completa individuazione . Individuazione che si compie attraverso vari
ruoli inizialmente scissi e separati, ruoli psicosomatici, psicologici,
sociali.
Infine nella seconda fase di
sviluppo, che Moreno chiama 2° universo, il bimbo giunge ad una separazione fra
Io e Altro da se, Io e persone ed
oggetti estranei. Si giunge così alla matrice d'identità globale, in cui si
giunge alla percezione della relazione interpersonale.
Relazione che nasce dalla
sua capacità di distinguere se stesso dall'altro, ma anche da quella di poter
provare empatia per l'altro e “giocare” il ruolo dell'altro. Quello che si
chiama: inversione di ruolo. L'altro, il fuori da se può essere immaginario o
reale e da luogo a ruoli psicodrammatici simbolici come ad esempio DIO oppure,
reali o sociali.come ad esempio IL GENITORE, il MAESTRO..etc.e.tc...ED è qui che si inserisce
il valore del sociodramma.
Lo psicodramma é un metodo di azione profonda
che si occupa delle relazioni interpersonali e di ideologie private, mentre il
sociodramma é un metodo che si occupa delle relazioni fra gruppi e delle
ideologie collettive. Nel sociodramma esteriorizziamo e oggettiviamo i fenomeni
culturali. Nel gruppo si vive un contesto sociale in miniatura dove i
rappresentanti sono due: la società ed i personaggi che la caratterizzano nei
loro ruoli standard: il politico, il giornalista, l'operaio, il bancario, il
ladro, il prete, il rabbino, il monaco
buddista, l'extracomunitario, l'africano, l'indiano d'america..etc..etc.
Lo stesso Moreno afferma, nel suo
manuale di psicodramma, “ Il
procedimento sociodrammatico è ideale per lo studio delle interrelazioni
culturali, in special modo quando due culture coesistono l'una vicino all'altra
ed i rispettivi membri subiscono un continuo processo di interazioni e scambio
di valori. Se consideriamo due culture A e B vediamo che i membri della cultura
A possono non avere alcuna immagine o più immagini molto inadeguate e distorte
dei ruoli rappresentativi della vicina cultura B ed altrettanto capita nella
cultura B nei confronti della cultura A.”
E quindi
essenziale poter riprodurre situazioni conflittuali attraverso una
rappresentazione drammatica che permetta ad entrambi i rappresentanti dei
gruppi A e B di immedesimarsi nei ruoli sociali senza riferirli personalmente a
se stessi ma a quello che rappresentano all'interno del gruppo ed attraverso la
catarsi, potersi liberare del pregiudizio interraziale. Da Moreno hanno preso
l'avvio una serie di interventi di gruppo in campo sociale con tecniche di
derivazione psicodrammatiche quali il ROLE PLAYNG , i cossidetti GIOCHI DI
RUOLO, ed il PLAYBACK TEATRE. Il role playng è forse la forma più usata in
ambito formativo e sociale. I giochi di ruolo , oltre ad essere stati usati in
ambito di gruppi di formazione e di addestramento hanno avuto un enorme diffusione
in ambito informatico. Sono nati così i MUD, giochi dove il protagonista si
trova ad impersonare un personaggio che può vivere una vasta rete di identità e
di situazioni. Nascono delle vere e proprie comunità virtuali dove le
“personalità elettroniche” degli utenti di incontrano, si identificano e
acquisiscono una posizione sociale di un certo tipo. Le origini dei giochi
finalizzati ad acquisire una padronanza di situazioni reali si rifanno ad
esempio al gioco degli scacchi, diretta derivazione dai giochi di guerra. Dalle fine del 1700 nascono i giochi di
simulazione assai vicini ai wargames,
costituiti da figurine comprendenti fanteria, cavalleria e artiglieria
che si muovevano su una tavola ricoperta di sabbia, e con regole speciali e
complicate. Questo gioco infine fu usato nella formazione degli ufficiali. Dai
giochi di simulazione bellici si passò ai giochi economici. I primi ad
utilizzare tali tecniche furono i commessi viaggiatori per esplorare i rapporti
con i clienti, infine se ne sono appropriati i dirigenti di azienda. Simulare
dal latino semilis = simile , radice europea = sem= unico. Significa
riprodurre l'unico in modo che sembri vero.Gate= regole e ruolo= l'assunzione
di un ruolo fa di un game un gioco giocato. Servendosi di questi supporti le
simulazioni permettono agli utenti: 1. di esercitarsi in compiti che altrimenti
sarebbero troppo onerosi o pericolosi 2. interrompere il gioco per riflettere o
chiedere aiuto 3. l'istruttore può
rafforzare l'interconnessione tra soluzione dei problemi ed
apprendimento
Numerose sono le ricerche che hanno accertato l'efficacia
delle tecniche di simulazione come strumento didattico e trasformativo.
Gli effetti psicologici
dell'interazione con l'ambiente interattivo in cui si attua la simulazione
giocata sono fondamentalmente simili a quelli provocati dal role.playng e
riconducibili agli effetti psicodrammatici . Essenziale in campo sociale si
presenta il Playback teatre, messo a punto dallo psicodrammatista statunitense
Jonathan Fox alla fine degli anni 70. Storie e fatti della vita vengono
raccontate da membri del gruppo e rappresentate al momento. Può essere svolto
in ambienti pubblici o in setting
educativi e clinici.
Gli elementi che concorrono
alla realizzazione di questo teatro comunitario sono: il direttore, gli attori,
il musicista, il narratore.In ambienti pubblici si presta ad affrontare temi
sociali , conflitti, abitudini diverse, credenze a confronto.In Italia Luigi
Dotti ha creato a Brescia un teatro dove si effettua sessioni di Playback teatre. Inoltre conduce un laboratorio di psicodramma. Ma
come utilizzare al meglio questo strumento? Quali possibilità abbiamo di
“scendere in piazza” e portare alle persone la possibilità di confrontarsi con
il teatro di se stessi? Agli inizi del
2000, con l'estendersi della globalizzazione, in Brasile , a San Paulo, il
sindaco ha attivato lo “psicodramma da Ciclade” sul tema “etica e
cittadinanza”. Sono intervenuti 8000 persone e 700 psicodrammatisti, e hanno
drammatizzato la domanda” cosa puoi fare tu per avere una città felice?” Si
sono tenuti più di 150 psicodrammi simultanei in città. L'evento è stato
organizzato da Marina Greeb. Dal 2002 ancora a san Paulo si organizzano
sessioni di psicodramma pubblico ogni
settimana. Ed ancora qui in Italia , a Livorno, nel 2006 , nelle piazze si è
drammatizzato una serie di incontri psicodrammatici dal tema: le voci della
città. Infatti è la POLIS il soggetto protagonista del percorso formativo. La
forza e la motivazione che ha spinto i cittadini livornesi a proporre una
modalità totalmente nuova di lavoro nella città deriva dalla risonanza
dell'esperienza brasiliana. Mi auguro
che ci sia sempre un maggior interesse in questo senso sia da parte degli
operatori sociali che da parte degli utenti.