Emozioni
di Stefano Centonze
“Capire tu non puoi…tu
chiamale, se vuoi, Emozioni”. E la voce e la musica di Lucio Battisti irrompono
nella nostra
memoria e scatenano in noi una sequela di indicibili sensazioni
che ci riportano indietro nel tempo e ci immergono nel mare magnum di emozioni
che era la nostra vita negli anni ’60-’70, quando ancora rifiutavamo,
inconsciamente, la razionalità e “naufragar ci era dolce in questo mare” .
Forse, a pensarci bene, è stata la musica di Lucio Battisti che ci ha fatto
riflettere sul significato del termine ‘emozioni’.
Tullio De Mauro, alla pag.
818 del suo Dizionario Italiano, spiega che il termine “emozione” deriva dal
latino e-movere (cioè, smuovere) e lo traduce con “imprecisione”, “sensazione
forte, turbamento, intensa esperienza psichica, piacevole esperienza
accompagnata da reazioni fisiche e comportamentali” e dà come sinonimi
commozione, turbamento.
Praticamente la nostra vita
è essa tutta un’emozione, un susseguirsi di gioie, dolori, piaceri, disgusti,
collere, sorprese. E sulla stessa lunghezza d’onda è Robert Soussignan che in
“Emozioni” - vol. 2, pp.57-74, 2002 - si domanda: “Che cosa sarebbe la vita
senza emozioni? Le emozioni colorano la nostra esperienza quotidiana e accompagnano gli eventi importanti…”.
E, quindi, analizzando e razionalizzando
la nostra vita, conveniamo col Soussignan - e col più essenziale e
doverosamente schematico Tullio De Mauro - che tutte le emozioni sono
accompagnate da manifestazioni corporee (aumento del ritmo cardiaco,
espressioni del volto o del corpo) e comportamentali (avvicinamento, fuga,
lotta) che ci permettono di adattarci alle circostanze, influiscono sulle
nostre percezioni, sulla memoria episodica, sulla nostra capacità di prendere
decisioni e formulare giudizi. E soprattutto ci consentono di comunicare e
trasferire informazioni agli altri.
Ma, se da una parte i
ricercatori sono concordi sul ruolo esercitato dalle emozioni nella nostra
vita, dall’altra essi sono divisi circa la natura e la quantità delle emozioni,
nella loro classificazione e nella diversa incidenza sulle nostre reazioni.
Già, perché alla fine sono le nostre reazioni che determinano la natura delle
emozioni e ne consentono quella chiarificazione di cui sopra.
L’emozione che suscita in
noi la nascita di un figlio, l’ascoltare la sua voce che ripete il nostro nome
e comincia a dare un nome a tutte le persone e le cose familiari, consegnarlo
alla maestra nel primo giorno di scuola, accompagnarlo per tutto il cursus
scolastico fino alla maturità e all’università e vederlo camminare con le sue
gambe per la via della realizzazione professionale… è indescrivibile. Tuttavia,
possiamo immaginare l’espressione del nostro viso davanti a questi eventi:
espressione sempre facilmente leggibile dai nostri occhi e capace di
trasmettere anche agli altri il nostro stato d’animo. E, se sul nostro volto si
può leggere la nostra gioia, è sempre attraverso quello, il volto, che
trasmettiamo le nostre sensazioni di paura, di tristezza, di disgusto, ecc.
Siamo un libro aperto per gli altri o almeno per tutti quelli che, dotati di
sensibilità, sanno leggerlo. Lo stesso dicasi per gli altri: anche loro per noi
sono un libro nel quale leggiamo facilmente le loro intenzioni. Almeno così
dovrebbe essere. Ma questa è un’altra storia.
Già alla fine del XIX
secolo, Duchenne de Boulogne, nel trattato intitolato Le mécanisme de
l’exspression facial humaine, questo concetto era chiaramente
espresso a sostegno di quanto affermato da Charles Darwin in “L’espressione
delle emozioni nell’uomo e negli animali”, quando affermava che le diverse
mimiche riflettono emozioni diverse e comunicano numerose informazioni sulle
intenzioni della persona che le esprime. Emozioni intense, dunque, a conferma
del semplice fatto d’esser vivi.
E questo da sempre: già da
quando ad un anno il bimbo ha letto sul volto della mamma la paura per il
pericolo cui si era esposto e l’aveva indotto ad adottare un atteggiamento
diverso. È in quello stesso istante che egli percepisce di aver fatto la cosa
giusta, dal rasserenamento del volto materno. Ma quali sono i fattori che
determinano le espressioni facciali, quale la natura dei loro legami con le
emozioni e le informazioni che dette espressioni veicolano?
E qui i vari ricercatori
richiamano le cosiddette “teorie della valutazione cognitiva”, le quali non
postulano – come qualcuno potrebbe pensare – programmi neuromotori innati, che determinano un limitato numero di
espressioni facciali, ma presuppongono che la diversità delle espressioni
facciali siano il risultato di sequenze ordinate del trattamento dello stimolo
che ha scatenato l’emozione. La contrazione dei muscoli della fronte, infatti,
l’elevazione delle sopracciglia, la contrazione dei muscoli della mascella con
stiramento delle labbra e apertura della bocca sono altri modi, diversi da
persona a persona, di esprimere le emozioni e sono soggetti a variazioni
collegate all’età, alla cultura e all’esperienza di ciascun individuo. Molti
sono gli studiosi che se ne sono occupati: da Linda Camras della De Paul
University di Chicago a Benoit Schaal e Luc Marlier di Digione, dallo stesso R.
Soussignan, già più volte citato all’illustre Paul Elkman, massima autorità
mondiale sullo studio dell’espressione mimica delle emozioni, nonché padre
della criminologia moderna.
E non solo il volto ma tutto
il corpo incamera emozioni e reagisce con comportamenti diversi a seconda
dell’età, della cultura, dell’esperienza e – perché no? – del sesso.
Quando proviamo un’emozione,
il nostro corpo subisce alcune modificazioni, come l’accelerazione del ritmo
cardiaco, respiratorio e la secrezione di adrenalina. Tutte reazioni che
alterano il nostro status momentaneo e mandano input al nostro cervello, a
supporto delle teorie di quanti teorizzano rapporti circolari tra emozioni,
cervello, coscienza e risposta organica corporea.
Ma le emozioni interessano
prima la nostra psiche o la nostra
“fusis”? Interessanti sono gli argomenti addotti dai vari William James, Carl
Lange e, ultimamente, dagli statunitensi, Antonio Damasio e Paula Niedenthal,
che non pare giungano ad un’univoca conclusione. Anzi.
E’ un po’ tornare nell’
aristotelica questione: è nato prima l’ uovo o la gallina?
Le emozioni esistono e le
reazioni pure ma, razionalizzandole, notiamo che la voce di Mina e di Pavarotti
produce emozioni, come anche l’ascolto di un brano di Chopin, di Debussy, di
Verdi. Emozioni percepite ed esternate in maniera diversa, con “coloritura” più
o meno forte, ma per niente paragonabile all’entusiastica reazione dei tifosi
milanisti al gol di Inzaghi contro il Liverpool nel 2007.
E tu non sforzarti di
capire, “chiamale, se vuoi, emozioni”. E, dunque, comprenderle, classificarle,
dare un nome capace di differenziarle è possibile? Lo sarebbe ma “capire tu non
puoi: tu chiamale se vuoi, emozioni”.
La
comunicazione conflittuale
di Alfonso Falanga
-dalle insufficienze del determinismo
Stimolo-Risposta al Tempo dell'Ascolto-
Non è necessario riferirsi
alle cronache quotidiane per riconoscere come le persone, oggi, abbiano sempre
più difficoltà a capire ed a farsi capire.
Giornali e TV riportano casi
eclatanti di incomunicabilità che si verificano
in contesti in cui, al contrario, è legittimo attendersi accoglienza ed
ascolto: la famiglia, in primo luogo, a seguire l’ambiente professionale, la
scuola, i gruppi sociali.
Nella normalità quotidiana
non si giunge, per fortuna, a tali estremi disaccordi. Ciò non toglie che anche
in questa dimensione siano frequenti i momenti di profonda incomprensione e di
doloroso disagio interiore.
Certo, il contrasto
relazionale ormai pervade il nostro vivere collettivo. L’elemento dirompente è
che, come dicevamo all’inizio, lo scontro tra modi diversi di interpretare il
mondo appartiene anche a quegli ambienti che, invece, dovrebbero fare da argine
alla conflittualità sociale.
Non ci stiamo riferendo alla
normale ed auspicabile differenza, segno distintivo della individualità, che ci deve essere tra modi di pensare e che
rappresenta la premessa indispensabile
alla comunicazione. Lo scambio di contenuti verbali e non verbali ha come meta
la conferma delle alterità e non certo l’omologazione delle menti.
L’oggetto della nostra
riflessione, al contrario, è quel discutere senza sapere su cosa lo si stia
facendo, è lo scollegamento tra pensiero e parola e non perché soggetti a
patologie dissociative ma in quanto vinti – in quel momento - da emozioni e pensieri negativi. E’ quel
parlare tra persone che ritengono, in tutta onestà, ognuno di dire la propria
per poi accorgersi che così non è stato. Senza comprenderne la ragione.
Stiamo dunque riflettendo
sulla impossibilità, o incapacità, a manifestare la propria alterità, a
rafforzarla e, nello stesso tempo, a metterla in gioco.
Quando tale dinamica non si
realizza vuol dire che la comunicazione si è bloccata.
La domanda, dunque, è: come
mai tale evento spesso avviene proprio lì dove esistono premesse che lasciano
prevedere il contrario?
Il che non significa che
comunicare, già sottolineato ma è bene ribadirlo, implichi l’essere sempre
tutti d’accordo.
Comunicazione, a dispetto
dei luoghi comuni, vuol dire “semplicemente” mettere in comune i propri mondi
emotivi e cognitivi al di là del fatto
che si giunga o meno ad un accordo .
Comunicare esprime, nella
sua natura, il messaggio “ Io e te dialoghiamo anche se siamo diversi”, anzi “
Io e te dialoghiamo proprio perché siamo diversi”.
Non è una questione di “
buonismo” ma di sopravvivenza: il progresso si fonda sulle differenze, non
sulle omologazioni. Chi ferma la storia è colui che tende a fare del mondo una
sua controfigura: prima o poi è la realtà stessa a disarcionarlo dal suo trono,
non gli oppositori ( se ancora ce ne sono).
La domanda che ci siamo
posti mette in evidenza che, nelle relazioni umane, gli scambi non avvengono
mediante il modello deterministico Stimolo – Risposta. Se così fosse, sarebbe
sufficiente migliorare l’impulso che si invia per ottenere, dal destinatario,
la reazione che si desidera.
Ad un genitore, ad esempio,
sarebbe sufficiente scegliere con cura le parole e gli atteggiamenti con cui
dare regole al figlio per garantirsi l’ubbidienza. Oppure nel manifestargli
affetto, per essere certo che tale sentimento sia riconosciuto e compreso. Così
sarebbe, con le opportune differenze, tra coniugi o nelle professioni. Qui
basterebbe che tutti i membri di uno staff aziendale condividessero il medesimo
obiettivo ( es. portare a casa lo stipendio a fine mese) per assicurarsi
quantomeno un ambiente lavorativo sereno in cui dedicarsi pienamente ed
esclusivamente a “ far soldi”. Eppure la conflittualità
relazionale in Azienda ricorda che non sempre è sufficiente, nel gruppo,
seguire un medesimo scopo. Che è difficile dare regole, e seguirle, senza
generare disagi e contrasti anche lì dove la normativa è palesemente funzionale
al raggiungimento della meta.
Non basta curare lo stimolo,
insomma, per produrre la risposta utile.
Potenziare le proprie
modalità comunicative, se così fosse, si ridurrebbe a perfezionare la scelta
del proprio lessico e dei propri atteggiamenti.
Terminologia e non verbale
sono certamente elementi insostituibili di una comunicazione efficace ma non
sufficienti a realizzarla. Ce lo dice, appunto, la quotidiana conflittualità
relazionale.
Che la comunicazione fosse
riconducibile, e riducibile, al modello deterministico fu la convinzione su cui
si sono fondati i primi studi sugli scambi interpersonali nel momento che la
comunicazione assunse il valore di una disciplina a sé stante, certamente
connessa ad altre materie come psicologia, sociologia, antropologia,
linguistica ma comunque provvista di un autonomo statuto disciplinare.
Sullo stesso assunto si
legittimò, a metà del secolo scorso, il messaggio pubblicitario che si voleva
sempre più accurato ( più ripetitivo, più dinamico, più aggressivo, più
distante possibile dalla realtà) così da essere più diretto e preciso nel
cogliere ( o suscitare ex novo) il bisogno/ desiderio del destinatario.
Migliorare lo stimolo, dunque, per ricevere la risposta prevista, utile e
desiderata.
Era una procedura fondata
sull’insistenza ed adottata anche dalla politica in particolar modo quando si
fece unicamente portatrice di interessi più che di valori. Da quando si staccò
dalla logica del partito di massa per assumere quella del partito personale.
L’insistenza è diventata
poi il principio su cui si è fondata e
si fonda la società post-moderna nella gran parte delle sue dimensioni.
Impoverimento delle
ideologie, intese come grande narrazione ( ognuna con il suo punto di vista)
della storia della umanità, sostituzione dunque della storia con la cronaca,
amplificazione di un eterno presente a scapito della memoria e del progetto
sono elementi che non possono non avere peso sulla comunicazione in ogni sua
espressione.
Compresa quella del “ faccia
a faccia”.
Affinare lo stimolo va bene,
è indispensabile, ma esso agisce su una complessità di variabili emotive/
cognitive e comportamentali che in alcuni casi possono indebolire o azzerare la
“ perfezione” dell’impulso.
Così è per il messaggio
pubblicitario.
Così è per il discorso
politico.
Così è, ancor di più, per la
comunicazione interpersonale.
La Sociologia ci dice che il
ruolo di chi emette il messaggio, e quello del destinatario, sono fattori che
orientano significativamente l’efficacia dello Stimolo, l’interpretazione che
ne fa il ricevente e, dunque, la direzione della Risposta.
La Sociologia, e tutte le
discipline che in qualche modo osservano l’ambiente sociale/ culturale/
economico in cui avviene la comunicazione, ricorda gli effetti che il contesto
ha su di essa.
Sul messaggio, inoltre,
agisce anche un ambiente “ interno” vale a dire il sistema emotivo e cognitivo
dei parlanti. Tale complesso di emozioni / pensieri/ sentimenti/ convinzioni e
comportamenti rappresenta il luogo d’origine del messaggio e,
contemporaneamente, né è la lente che lo rende più chiaro oppure lo
distorce. La differenza tra le persone
può allora essere o cassa di risonanza dei significati oppure filtro
deformante.
O un definitivo muro
invalicabile.
Risolvere la conflittualità
relazionale richiede allora, oltre che la preziosa cura degli strumenti verbali
e non verbali con cui si comunica, comprendere cosa accade in quello spazio che
si crea tra Stimolo e Risposta. Si tratta del luogo in cui, parafrasando il
filosofo Gianni Vattimo, “ la parola risuona”. E’ lì che il messaggio, sia in
entrata che in uscita, trova effettivamente il suo significato.
Questo è il significato che,
nel dire, va cercato e, nel ricevere, va ascoltato.
Non ci riferiamo al compito
che spetta al professionista dell’ascolto. Non tutte le distorsioni e i disagi
che ne conseguono sono materia di lavoro per psicologi/ psichiatri/ medici e
quant’altri si occupino delle patologie ( effettive o presunte)
comportamentali.
Si tratta di un impegno che
ognuno, nel suo quotidiano, può compiere su di sé e sugli altri, in particolar
modo in quei contesti in cui la comunicazione ha tutte le carte in regola per
giungere a compimento.
Ciò diventa possibile solo
se ognuno esce da quel riduzionismo a cui, a volte, ci si chiude per pigrizia
mentale o perché pressati dalle accelerazioni del quotidiano.
Quest’uscire si traduce in “
darsi tempo” e “dare tempo”.
Darsi tempo per ascoltare e
dare tempo all’altro per esprimersi ciò che effettivamente vuole dire.
Il tempo dell’ascolto,
diverso per qualità al tempo cronologico, implica la capacità e la volontà di sospendere il giudizio ossia di accogliere
l’altro privi del supporto delle proprie convinzioni ( che non significa
rinunciarvi).
Mettere accanto a sé, e non
davanti a sé, le proprie credenze significa avere coraggio. Coraggio di
riconoscere che ci sono ancora altre domande da porre alla realtà che resta sì
una ma, a volte, non ancora definita, capita, esaurita.
Coraggio di porre queste
domande o di ammettere la propria incapacità o impossibilità a farlo.
Coraggio di non trasferire
le proprie eventuali incapacità ed impossibilità sulla complessità della realtà
Ciò vale nel caso di
qualsiasi realtà, che sia umana o sociale o altro.
Che sia la realtà costituita
dalla personalità di un figlio, di un coniuge, di un amico, ecc.
Realtà complesse, mai
definitive. Certo non riducibili al modello Stimolo – Risposta.
Sembra poco ma non lo è, lì
dove la vita corre sui binari dell’insistenza.
Lo
sviluppo della manualità
di Sandra Pierpaoli
Manualità significa abilità
nell’usare le mani: una capacità che è importante sviluppare e coltivare in
ogni momento della vita, ma soprattutto
nelle diverse fasi della crescita che vanno dai primi mesi di vita
all’adolescenza, perché è collegata allo sviluppo di molti altri importanti
fattori: sensoriali, motori, emotivi, cognitivi, che di volta in volta e nel
susseguirsi dei diversi stadi, vengono chiamati in gioco in maniera
diversa.
I recettori del tatto
percepiscono attraverso tutta la pelle ed il tessuto muscolare e sono
responsabili di registrare gli stimoli esterni quali la temperatura , la
pressione, la vibrazione, il movimento, la posizione delle cose e delle persone
nello spazio, il dolore I segnali che
provengono dai recettori tattili convergono nel cervello e vanno a formare la rappresentazione “mentale” del proprio corpo, quindi la percezione interna
di se stessi. Se questi recettori non sono stimolati sufficientemente, la
sensibilità si atrofizza e di conseguenza anche la mappa interna di
rappresentazione di se stessi risulta contratta. E’ per questo che la
manipolazione del neonato è così importante, perché lo aiuta, oltreché a creare
un legame con la madre, a sviluppare la ricettività, le capacità cinestesiche e
lo sviluppo dei confini corporei. La
recezione non avviene solo in modo passivo, quando per esempio il bambino viene
toccato e massaggiato dalla madre: il tatto, proprio attraverso la mani, è
anche un senso attivo che serve a conoscere il mondo e a stabilire delle
relazioni significative. Per il bambino piccolo la mani sono un importante
strumento di conoscenza e di esplorazione: toccare gli oggetti, i visi, il
biberon, il seno sono modalità di apprendimento fondamentale e, parallelamente
un mezzo per entrare in comunicazione con l’ambiente, in attesa di imparare a
farlo mediante la parola. L’intelligenza senso motoria si struttura prima dell’apparire
del linguaggio ed è prelogica. Essa si sviluppa durante il primo anno e mezzo
di vita, durante il quale il bambino costruisce le nozioni di oggetto,
movimento, causa, tempo. Verso il terzo
/quarto mese di vita il bambino scopre le sue mani, le muove davanti al viso,
le segue attentamente, anche perché, oltre ad essere una cosa in movimento, lo
fanno interagire con il mondo. Con le mani il bambino tocca ed esplora le cose
ma tocca ed esplora anche il suo corpo, il suo viso, afferra gli oggetti e
prova sensazioni dalle diverse superfici. Questa per lui è una grandissima
novità, quando poi impara ad aprire e chiudere le mani il gioco è ancora più
divertente, perché può afferrare tutto quello che gli capita intorno. In questa
fase le mani sono anche un surrogato del seno e del succhiotto, il bambino le
mette in bocca e le succhia come può. Al terzo mese il bambino impara anche a
capire il rapporto di causa ed effetto, nel senso che impara che se allunga una
mano e tocca qualcosa questa si muoverà e magari emetterà un suono. Tende a
ripetere sempre lo stesso gesto, perché la scoperta gli piace. E’ anche un
esercizio per coordinare gli occhi alle mani, cosa che raggiungerà il
perfezionamento intorno ai sei mesi.
Nel periodo senso motorio
del primo anno e mezzo lo sviluppo della manualità ha perciò a che fare con la
scoperta dell’ambiente esterno, ma anche con la sollecitazione delle strutture
neurofisiologiche che permettono lo sviluppo di una rappresentazione di se
stessi, di un apprendimento adeguato e
della capacità di entrare in relazione con gli oggetti e con le persone.
Durante tutta l’infanzia il
bambino completa la sua maturazione, soprattutto attraverso il gioco. Il gioco
permette di esercitare i meccanismi nervosi nelle varie direzioni: movimento,
esplorazione, osservazione, immaginazione. Attraverso il gioco il bambino
impara ad avere un rapporto con gli oggetti, a toccare, manipolare, strappare,
avvolgere. I giochi con l’età diventano sempre più complessi e matura la
capacità tipica dell’uomo cioè quella di immaginare. Nei giochi dei bambini è
importante che ci siano aspetti manuali,
agonistici, emotivi e di progettazione. Le capacità di manualità e di
progettazione che si sviluppano attraverso il gioco saranno importanti
anche nella vita adulta. E’
fondamentale, durante tutta la fase dell’infanzia, che il rapporto manuale con
gli oggetti sia orientato alla scoperta di tutte le possibilità che un oggetto
offre e coordinato con l’attività mentale dell’immaginazione e della
progettazione di qualcosa. D’altro canto lo sviluppo delle facoltà mentali è
strettamente legato all’esplorazione manuale. Il bisogno di gioco, come di
un’attività che suscita l’interesse , la motivazione e il coinvolgimento di
vari aspetti di sé, permane anche nella vita adulta. Il bisogno di relazionarsi
agli oggetti non solo per la loro utilità e funzionalità, ma anche per il
rapporto creativo che è possibile stabilire con loro, è un bisogno fondamentale
anche nell’adulto, che è spesso frustrato e non riconosciuto.
Nel periodo
preadolescenziale e adolescenziale si va gradualmente verificando un grande
cambiamento fisico, ormonale e del pensiero. Questo cambiamento mette in forte
subbuglio l’adolescente che non è più un bambino, non è ancora un adulto, e che
ha a che fare con intense correnti ormonali, emotive e cognitive che si muovono
dentro di lui. In particolare si passa da un modo di pensare concreto, cioè
connesso alla realtà che si sperimenta e
agli oggetti con cui si ha a che fare, ad un modo di pensare astratto, e
cioè all’acquisizione della capacità di fare delle ipotesi, delle deduzioni, di
ragionare sulle possibilità alternative alla realtà. Questo cambiamento è molto
importante, stravolge tutto il modo di percepire la realtà circostante e di
considerarla. Contemporaneamente, dal punto di vista emotivo, il passaggio
ormonale, il graduale e complicato
distacco dalle figure di riferimento e
la ricerca della propria identità, creano una grande produzione di emozioni
molto contrastanti ed intense, che l’adolescente non sa come gestire,
canalizzare, esprimere. Spesso si assiste a degli eccessi, o di
intellettualizzazione, nel senso che proprio per non affrontare la complessità
di tutte queste emozioni, l’adolescente diventa tutto mentale, ascetico,
filosofo, o al contrario di manifestazioni emotive estreme spesso di tipo
aggressivo. Anche il rapporto con le cose e con gli oggetti si fa estremo, o
non gli si dà nessun valore ( pensiamo a come un adolescente lascia la sua
stanza o tratta i suoi vestiti) oppure ne ha troppo, per cui le sue cose non
devono essere toccate da nessuno. Nell’adolescente dei nostri giorni il
rapporto con gli oggetti circostanti passa attraverso la mediazione tecnologica
del computer e del cellulare, che rappresentano un buon veicolo per il suo
nuovo modo di pensare il mondo e un sistema di comunicazione che spesso lo
toglie dall’impaccio della comunicazione diretta. In questa cornice il ruolo
della manualità è molto importante, poiché
permette di integrare l’aspetto fisico e concreto con quello
dell’ideazione e della progettazione. La manualità può rappresentare per
l’adolescente una forma di regolazione tra l’eccesso di astrazione e l’eccesso
di investimento emotivo. Può aiutarlo a stabilire un rapporto più equilibrato
con l’oggetto e con il suo valore, e di conseguenza anche con i propri processi
interni. E’ anche importante poter lavorare per il raggiungimento di un
risultato concreto, perché le energie vengono messe al servizio di un obiettivo
costruttivo, cosa che permette all’adolescente di acquisire fiducia nelle
proprie capacità e dunque di accrescere la propria autostima.
Sandra Pierpaoli è psicologa
e psicoterapeuta, iscritta all’Albo degli psicologi (n°7991) e all’elenco degli
psicoterapeuti della Regione Lazio. Si è
specializzata in Analisi Bioenergetica, presso l’Istituto “W. Reich” di
Roma ed è in supervisione presso l’I.I.F.A.B.. Ha approfondito la ricerca
sull’espressione attraverso il movimento, frequentando il Corso quadriennale in
Danzaterapia presso l’Associazione italiana di Danzaterapia di Sacrofano (Roma)
e partecipando a gruppi terapeutici e
seminari di formazione professionale in danzaterapia, musicoterapia e
movimento-creatività. Dal 1993 esercita come psicoterapeuta presso il suo
studio di Roma a S. Paolo con percorsi
individuali di coppia e di gruppo rivolti ad adulti e ad adolescenti, ponendo
particolare attenzione alla ricerca dell’integrazione corpo-mente-spirito. Ha
collaborato con la ASL RM/C di Roma e
con la Cooperativa A.V.A.S.S.. Lavora con l’Associazione “Il Boschetto
di Pan” di cui è co-fondatrice. Svolge attività di formazione presso Istituti
olistici di Roma. www.sandrapierpaoli.com ; cell.339/4936633
Reparti
psichiatrici
di Silvio De Fanti, CCDU
(Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani onlus)
Perché i reparti
psichiatrici non sono come gli altri reparti ospedalieri? Forse che la
disciplina psichiatrica è diversa dalla medicina? Pare proprio di sì. Dalle
testimonianze di molte persone che sono state ricoverate presso questi reparti,
e successivamente si sono rivolte al nostro comitato, emerge che quando un
paziente si lamenta di disturbi o non concorda con alcuni aspetti della terapia
non gli viene dato ascolto; anzi, spesso subisce vere e proprie minacce
consistenti in aumento della dose di alcuni farmaci per “quietarlo” o
contenzione o prolungamento del tempo di ricovero se si tratta di un
trattamento sanitario obbligatorio (TSO) o di uno volontario che si potrebbe
trasformare in TSO.
E’ raccapricciante
constatare,nel ventunesimo secolo, l’assoluta mancanza di rispetto dei diritti
umani e della dignità in questi reparti; e questo non riguarda solo gli OPG. Di
molti fatti che accadono in questi reparti si sa ancora troppo poco. “Sette
morti nei reparti psichiatrici di Niguarda”: la denuncia di Telefono Viola.
Pazienti riferiscono di minacce, maltrattamenti o soprusi ricevuti ma, essendo
etichettati “malati mentali”, non sono tenuti in considerazione. Un altro
aspetto sono i muri che alcuni psichiatri ergono intorno al paziente per
isolarlo anche dai familiari, facendolo apparire come una persona le cui
emozioni, opinioni o rimostranze sono dovute unicamente alla sua condizione
mentale.
Ma tutto questo rimane
sepolto da una cappa di omertà, generata da infermieri che temono ritorsioni se
rivelano gli abusi che sono costretti a perpetrare, da cartelle cliniche che a
volte omettono il sovradosaggio di farmaci e dal mito della malattia mentale,
che renderebbe inattendibili le testimonianza delle vittime di questi
manicomietti.
Troppo spesso è usato il
pretesto che ci sono malati pericolosi, l'esempio sono gli OPG, 8 decessi da
inizio anno di cui 13 in quattro anni solo ad Aversa. In che modo si è svelata
la realtà di queste strutture? Attraverso i blitz. Solo allora i rappresentanti
delle istituzioni e la gente ne sono rimasti inorriditi. Si dovrebbero
maggiormente ascoltare e considerare come esseri umani le persone definite
“malate mentali” per impedire che ci siano ancora oggi violazioni di questo
genere sotto gli occhi di tutti ma abilmente celate col nome di “malattie”, e
fare dei blitz anche nei reparti psichiatrici.
L'altro aspetto sono le
alternative per aiutare persone che hanno difficoltà. Esistono ed è dimostrato
chiaramente che si possono attuare metodi molto validi di riabilitazione senza
abusare di contenzione e somministrazione di psicofarmaci rispettandone la
dignità umana. Perché non sostenere maggiormente tali metodi? Quali sono gli
interessi collegati alla persistenza di sistemi che rendono perennemente le
persone dipendenti da strutture e farmaci? Sono forse i finanziamenti ad essi
collegati?
Il Comitato dei Cittadini
per i Diritti Umani dal 1979 si batte per esporre le violazioni nel campo della
salute mentale e la tutela dei diritti umani in questo settore e continuerà a
farlo affinché la dignità di queste persone sia rispettata. A tal proposito in
questi giorni è possibile visitare la mostra, “Psichiatria: la verità sugli
abusi” a Verona, presso il Palazzo della Gran Guardia dal 19 al 30 Giugno 2011.
La mostra, a ingresso libero, potrà essere visitata dalla cittadinanza dalle 10
alle ore 21 di tutti i giorni.
l
valore dell'arte nello sviluppo dei bambini
di Maria Novella Colluto
L’arte aiuta i bambini a
diventare più intelligenti?
Ebbene, studi scientifici,
condotti su bambini e studenti adolescenti, hanno determinato che la musica, la
danza o il teatro sono in grado di intervenire sul cervello, migliorandone,
considerevolmente, i processi cognitivi.
Secondo Intelligenti con
arte di Letizia Gabaglio, apparso nel mensile di Neuroscienze Mente & Cervello del Gennaio 2010, nel
1993 Nature, una delle più antiche ed importanti riviste scientifiche
esistenti, annunciava al mondo la scoperta del cosiddetto “effetto Mozart”:
alcuni studenti di college, a cui era stata fatta ascoltare la musica del
compositore austriaco, avevano migliorato le loro capacità di percezione dello
spazio circostante, fondamentali nella costruzione del ragionamento matematico
e scientifico. Ma, contrariamente a quanto si è creduto per anni, ovvero che la
sola musica classica fosse in grado di migliorare i processi cognitivi del
cervello, una recente ricerca condotta da Ellen Winner, del Boston College e da
Gottfried Schlag, della Harvard Universitiy, ha messo in evidenza che anche
altre forme di musica sono in grado di stimolare i circuiti coinvolti
nell’elaborazione degli stimoli musicali in bambini che studiano musica già
dopo 15 mesi.
Accade spesso che i bambini
manifestino insofferenza, svogliatezza o insufficienza nel rendimento
scolastico: è questo il momento più favorevole perchè il genitore “proponga” al
piccolo una forma d’arte, piuttosto che ricorrere ad ausili sociali, psicologici o, ancor peggio,
farmacologici.
Studiare musica in tenera
età, certamente, stimola una maggiore capacità di rappresentazione geometrica e
di apprendimento alla lettura.
Ma in che cosa è diverso il
cervello di chi suona? Studi di “imaging” hanno stabilito che i musicisti che
si sono accostati alla musica prima degli 8 anni dimostrano un maggiore
sviluppo del ‘corpo calloso’, il ponte che unisce l’emisfero destro, la parte
più veloce del cervello nell’elaborare i dati, dove risiede la capacità del
linguaggio, a quello sinistro, il più lento, che presiede a compiti più
complessi come l’elaborazione delle emozioni.
Infatti, un pianista, per
esempio, è in grado di eseguire tecnicamente bene un brano e, allo stesso
tempo, interpretare la musica dal punto di vista emotivo.
E chi danza? Chi balla
richiama implicitamente aree diverse del cervello, dal momento che è tenuto a mettere insieme capacità motorie,
espressive e comunicative - “ imparare a danzare non va considerato
esclusivamente un problema di passi e abilità fisica ma un prezioso strumento
di formazione dell’individuo, poiché il bambino è messo nelle condizioni di
comporre la propria danza senza il bisogno di imitare un modello ma,
semplicemente, riassemblando l’esperienza del corpo” -, spiega Franca Zagatti,
docente di attività motoria per l’età evolutiva all’Università di Bologna e ideatrice
della danza educativa, in Intelligenti con Arte.
Parimenti l’arte della
recitazione aiuta i ragazzi a sviluppare maggiori capacità creative, secondo
uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Toronto che ha analizzato
l’attività cerebrale di un gruppo di ragazzi che seguivano lezioni di
recitazione, insieme alla loro capacità creativa, misurata attraverso un test
di associazione verbale.
I preziosi studi effettuati da Michael Poster,
professore e primario di psicologia all’Institute of Cognitive and Decision
Sciences dell’Università dell’Oregon a Eugene, tuttavia, portano a ritenere che
non si debba esclusivamente affidare all’educazione alle arti in sé la
soluzione ai problemi di apprendimento, vista la diversità dei fattori (di
natura genetica e cerebrale) che
intervengono a determinare il nostro interesse verso un’attività, ma è necessario sapere che nei bambini che
dimostrano interesse verso una forma artistica la pratica agisce sulla capacità
di attenzione, migliora le funzioni cognitive ed è associata a un maggior
sviluppo delle capacità di linguaggio e di lettura. Tornando alla questione
posta in partenza, ovvero se l’arte stimoli l’intelligenza dei bambini oppure
no, si può riconoscere, in definitiva, il valore della stessa nello sviluppo
dei bambini, nell’ottica di favorire, tra l’altro, nuove esperienze didattiche
nel campo scolastico, campo in cui, oggi, un’educazione artistica ampia e
diversificata è quasi totalmente assente.
Creare
ed elaborare
di Clovis Roberto Anversa
Il disegno creato
liberamente può essere un’azione utile alla libera associazione di pensieri ed
emozioni, riuscendo a trasformare il presente nel ‘qui e ora’. Molti di noi
dovranno ammettere di aver conosciuto dei momenti di vertice che sembravano
effettivamente porsi ben oltre il tempo, tanto che passato e futuro si confondevano nell’oscurità. Perso in un
tramonto, paralizzato dai riflessi della luna su di un oscuro laghetto di
cristallo senza fondo, trascinato fuori dal tempo e da se stesso nell’abbraccio
estasiante della persona amata, sorpreso e immobilizzato dal rumore del tuono
che echeggia nella nebbia della pioggia. Chi non hai mai toccato l’assenza di
tempo?
Sembra tuttavia che soli
pochi di noi vivano unicamente e completamente nel presente. Ci soffermiamo su
ieri e sogniamo sempre il domani, ciò ci lega alla tortuosa catena del tempo e
ai fantasmi delle cose non realmente presenti. Disperdiamo le nostre energie in
nuvole fantastiche di ricordi e aspettative, privando il presente che viviamo
della sua fondamentale realtà e lo riduciamo a un presente inconsistente che
dura appena uno o due secondi, una pallida ombra del Presente eterno. Incapaci
di vivere nel presente senza tempo e di godere del piacere dell’eternità,
ricerchiamo deboli sostituti nelle semplici promesse del tempo, sempre sperando
che il futuro abbia ciò di cui così miseramente manca il presente.
Quand’ è che si può stare
tranquilli e rilassati, come in un dolce
fare niente, quando la vita è o sembra essere cosi frettolosa, sempre di corsa
per cose che che si devono fare per domani o per oggi, in un eterno presente
sempre frettoloso?
Riusciamo a risvegliarci da
questo incubo soltanto quando è la vita stessa che ci presenta ‘il conto’ con
l’ evento di una malattia, di una perdita importante o di un incidente di percorso, che ci fa fermare per
un instante, togliendoci dalla nostra corsa agitata e ponendoci di fronte a un
domani che non si sa quale sarà.
Anche quando siamo in
vacanza soffriamo per l’ansia di
riuscire ad approfittare al massimo possibile del tempo che sta per finire o,
peggio ancora, per la voglia di ritornare al lavoro perché annoiati.
Secondo il mistico, una vita
del genere è a sua volta una vita di miseria. Il mistico sostiene che tutti i
nostri problemi sono problemi di tempo, e problemi nel tempo.
Nella creazione libera,
senza preoccupazioni delle regole tecniche o altro, si può avere l’ esperienza
della realtà senza tempo, dove il flusso delle idee corrono libere in un gioco
rilassato e gioioso, pur essendo serio e consapevole nello stesso tempo.
Winnicott parlando delle
cure genitoriali sufficientemente buone dice
“Un bambino che può perdersi
nel gioco sapendo che il genitore è presente ma non interferisce, è un bambino
che ha accesso al proprio sé soggettivo”. Il disegno libero può facilitare una
condizione simile. Il bisogno ordinario di controllo viene sospeso, il sé
fluttua liberamente. Non si dissolve nel nulla, ma neppure viene conservato
nella sua forma ordinaria. C’è la possibilità di una comunicazione silenziosa con
oggetti soggettivi.
Questa temporanea
dissoluzione dei confini dell’io è sia soddisfacente che arricchente,
alimentando un senso di continuità e fiducia che Winnicot riconosce
implicitamente come indispensabile per sentirsi reali.
La persona matura ha accesso
a una sorta di comunicazione silenziosa che permette un’intensità di esperienza
personale che manca quando la mente pensante si sforza sempre di mantenere il
controllo.
Il controllo è una forma di
resistenza che impedisce il vero sé di esprimersi e realizzare se stesso.
Winnicot nella sua tesi
principale sul gioco dice: “Fin dall’inizio il bambino ha esperienze
estremamente intense nello spazio potenziale tra l’oggetto soggettivo e
l’oggetto percepito oggettivamente, tra le estensioni del me e il non me.
Questo spazio potenziale è al punto dell’azione reciproca tra il non esserci
altro che il me e l’esserci oggetti e fenomeni al di fuori del controllo
onnipotente”.
Questa esperienza intensa si
può riscattare quando abbiamo un ambiente che è protetto per potere realizzare
l’ esprimersi della creatività. Un ambiente che sia rilassato e permetta il
lasciarsi andare nell’ esprimersi libero e senza controlli. Creare un’
atmosfera di questo tipo non è facile e bisogna che le persone siano in grado,
tanto emotivamente quanto mentalmente, di favorire questo tipo di ambiente.
L’ambiente è fondamentale
per facilitare il contatto con l’ esperienza interiore di qualunque livello
essa sia e ci vuole tempo per riuscire a creare una dimensione in cui sia
realmente possibile facilitare la
crescita.
Quando mi riferisco al
tempo, non parlo di un tempo relativo cronologico, ma di un tempo episodico, di
quello che facilita la crescita dove si imparare a percepire. L’evento si
manifesta in un clima che sembra magico, come in un’opera di teatro, soltanto
che è reale e profondo in un solo stante.
La persona che contempla se
stessa è diversa dalla persona che sta nel tempo relativo, dove si occupa del
suo io, di come agisce, del mio, ecc.
“Quale suono bello e
autentico il contemplare di Goethe! E’ un contemplare di una intimità pura con
la Natura; lei si offre a lui e parla continuamente, lei rivela i suoi segreti
senza tradire i suoi misteri. Questo contemplare crede nella natura e parla alla rosa “Allora sei Tu?” e sei uno
e la rosa nello stesso momento”.
E’ cosi che si realizza un
incontro; Un incontro a due: sguardo nello sguardo, faccia a faccia. E quando
sarai vicino io coglierò i tuoi occhi per metterli al posto dei miei, e tu
coglierai i miei occhi per metterli al posto dei tuoi, poi io ti guarderò coi
tuoi occhi e tu mi guarderai coi miei. Così persino la cosa comune impone il
silenzio e il nostro incontro rimane la meta della libertà: il luogo
indefinito, in un tempo indefinito, la parola indefinita per l’uomo indefinito”.
(J.L. Moreno)
Nel mio libro Introduzione
alla psicoterapia integrale, parte terza-il gioco e il giocare, cerco di
sviluppare il concetto di creatività e passando per varie teorie
psicologiche e la filosofia orientale, cerco di mettere insieme i punti
comuni delle varie scuole, nel tentativo
di aprire un ventaglio per ripensare al concetto del gioco, del creare e
della creatività.