Il
complesso del superdotato
di Maria Galantucci
“Dalla preistoria in poi,
gli individui provvisti di un talento eccezionale hanno inevitabilmente dovuto
pagare altissimi
prezzi esistenziali.
Poiché da sempre la società
diffida del “diverso”, anche quando ne ammira le qualità intellettuali e le
capacità creative.” ( F. Parenti - Atlante dei complessi)
E’ difficile definire
l’intelligenza, poiché si corre il rischio di sottolineare solo certe sue
componenti, trascurandone altre.
L’intelligenza non è una
dote unica, ma deriva dalla confluenza di varie capacità mentali, che si
sviluppano dall’incontro fra un substrato ereditario e gli stimoli
dell’ambiente. Essa si esprime soprattutto in tre funzioni fondamentali:
apprendere, valutare criticamente quanto si è appreso e trovare soluzioni
nuove, ossia inventare.
La tendenza ad utilizzare
una valutazione numerica e globale, come quella che si ricava dai freddi e
impietosi test di livello, per stabilire l’eventuale esistenza di una
superdotazione intellettuale, è da considerarsi svilente e poco attendibile.
Ne fanno le spese proprio i
superdotati creativi, la cui attitudine all’invenzione li porta spesso a
trascurare o a smentire le verità o le pseudo verità convenzionali.
Sono appunto i creativi a
soffrire di più per le loro doti, che non sono riconosciute o addirittura
mettono in crisi insegnanti e psicologi frettolosi.
Si può definire “complesso
del superdotato” la sofferenza profonda che nasce dal sentirsi
intellettualmente diversi per una superiorità cosciente o inavvertita.
La psiche umana non sopporta
quasi mai con inerzia un fattore d’angoscia, tenta anzi di superarlo o di
aggirarlo con degli artifici di compenso. Alcuni di questi sono positivi, altri
negativi sino alla patologia o alla dissocialità. Di seguito saranno illustrati
i più significativi che riguarda appunto il tema della superdotazione.
Può sembrare paradossale che un individuo che
ha “qualcosa in più”, come il superdotato, sviluppi un complesso d’inferiorità.
Eppure accade, a grandi linee, secondo due schemi di autosvalutazione.
A volte l’insicurezza prende
corpo proprio nel settore dell’intelligenza. In alcuni casi, il soggetto è
consapevole delle sue doti, ma considera rischioso manifestarle. In altri casi
i giudizi negativi dell’ambiente hanno effetti più gravi e possono indurre
un’intima e sofferta convinzione di non valere.
Il secondo schema di
autosvalutazione del superdotato non riguarda il settore dell’intelligenza, ma
i rapporti interpersonali.
Si delinea allora la figura
patetica del “primo della classe”, ossia di un ragazzo gratificato negli studi,
ma privo di spontaneità nell’agire comune e soprattutto nelle situazioni di
gioco, divertimento e nelle attività sportive. Il riconoscimento intellettuale
c’è, ma è pagato a caro prezzo, con un’impressione frustrata di isolamento,
destinata a incidere negativamente, più tardi, anche nella vita amorosa.
Se un bambino o un ragazzo
si differenzia, nel profitto e nel comportamento, dalle prestazioni medie,
occorre approfondire con cura e competenza le motivazioni reali della sua
diversità. Le facoltà di medicina e di psicologia licenziano schiere di
specialisti che le strutture pubbliche non utilizzano. Se la psicologia e la
psichiatria entrassero nella scuola con un numero di operatori sufficiente per
effettuare accertamenti “centrati sul caso” ( e non soltanto per offrire una
superficiale consulenza di gruppo), molti falsi ritardati psichici potrebbero
essere indirizzati lungo una linea psicopedagogica a loro più congeniale. Per
quanto riguarda in particolare i superdotati creativi, le cui sofferenze sono
certamente evidenti, occorrono, insegnanti addestrati a valutare e a stimolare
anche al di fuori delle formule standardizzate, che sono certo rassicuranti per
il loro automatismo applicativo, ma sono anche fonti di troppi errori e di
imprevedibili conseguenze.
La società ha bisogno dei
superdotati e della loro produzione creativa: i farmaci che ci salvano dalle
malattie e dalla morte, le invenzioni che facilitano o gratificano la nostra
vita, i valori estetici ed emotivi delle opere d’arte scaturiscono tutti dalla
superdotazione.
Ma gli uomini di genio
servono alla collettività solo se sono armonicamente integrati. Può accadere
che individui eccezionali, se frustrati o al contrario spinti verso un eccesso
di competizione, sviluppino un complesso di superiorità che li rende degli emarginati, se pure di
élite, e talvolta induce fermenti di pericolosità. Per questo l’operazione
formativa di chi vale di più dovrebbe essere esente da esasperazioni e curare,
assieme allo sviluppo della conoscenza e delle capacità, l’inserimento dei
soggetti in rapporti interpersonali equilibrati a ogni livello.
Alfred Adler, con il
concetto di divisione del lavoro, ha tracciato il modello ideale di una
collettività umana formata da individui psichicamente non sovrapponibili,
disposti a cooperare e a compartecipare emotivamente, usando al meglio le
proprie specifiche attitudini.
I
volti dell'aggressività: approcci, teorie e neurofisiologia del comportamento
aggressivo-criminale
di Laura Petrucci
Il comportamento aggressivo
ha da sempre interessato gli studiosi impegnati nelle aree più disparate che
spaziano dalla criminologia alla sociologia, dalla filosofia alla storia, dalla
psicologia alla neurofisiologia, dalla genetica alla neurobiologia. Ad esempio,
la crudeltà dell'essere umano nei confronti dei propri simili è stata spesso
argomento di saggi filosofici, così come le guerre hanno sempre rappresentato
oggetto di enorme interesse per gli storici. Il crimine, una delle
manifestazioni di maggior rilievo del comportamento aggressivo e violento, si
colloca ai primi posti tra i temi trattati dalla letteratura, dalla stampa,
dalla televisione e dal cinema.
Il comportamento aggressivo
è caratterizzato dalla tendenza all'aggressione, vale a dire al compimento di
qualsiasi azione il cui intento, conscio od inconscio, è quello di offendere,
danneggiare o distruggere persone (comprese sé stessi), animali o cose. Ho
parlato di intento conscio od inconscio perché molti atti offensivi e
distruttivi avvengono senza la consapevole volontà di compierli. Possiamo
citare come esempi gli incidenti in auto, in casa o sul lavoro che, pur
rappresentando casi frequenti di mortalità, non sono ovviamente considerati
risultati di aggressioni volontarie, come pure l'inquinamento ambientale che è
dannoso, ma non è provocato con intenzioni distruttive. Bisogna, però, a questo
punto, introdurre il concetto di motivazione inconscia. Si scopre di frequente,
ad esempio, che molti incidenti non sono del tutto accidentali ma sono il
risultato del desiderio inconscio che un individuo ha di danneggiare altri o sé
stessi. L'aggressività può anche mascherarsi sotto le spoglie di fattori come
la preoccupazione per il bene della vittima, il controllo sociale, la
disciplina. E' importante, inoltre, distinguere tra azioni aggressive motivate
dall'ira e quelle determinate da cause diverse. Se prendiamo in considerazione
uno dei maggiori atti offensivi, come il delitto, esso può essere causato non
solo da reazioni emotive di ira, ma anche da motivi diversi: lo scassinatore
che, dopo essersi introdotto in un appartamento per rubare, s'imbatte nel
padrone di casa e lo uccide, non aveva probabilmente l'intenzione di farlo,
così come il soldato che in guerra uccide il nemico, raramente prova collera
nei suoi confronti. Sebbene siano stati proposti diversi modelli per
classificare l’aggressività, le linee teoriche ed empiriche convergenti hanno
suggerito una suddivisione della stessa in tre categorie principali:
1. Aggressività strumentali
2. Aggressività affettiva
3. Aggressività predatoria
La violenza strumentale
nasce dal desiderio di possedere qualcosa, come il denaro o la proprietà di
qualcun altro, senza che si abbia come intento quello di far soffrire la
vittima. Questa forma di violenza è ravvisabile, ad esempio nelle rapine.
Secondo un’ottica che combina la Teoria dell’apprendimento, con l’approccio
della Psicologia Evoluzionistica, è possibile ipotizzare che l’aggressività
strumentale sia determinata da propositi tattici volti al raggiungimento di
obiettivi, come lo status sociale o il denaro, e che si tratti di un
comportamento appreso che presuppone di solito un’analisi cosciente e calcolata
da parte del soggetto. La violenza espressiva, invece, definita anche ostile, è
dettata dalla rabbia o dall’ostilità nei confronti della vittima e ha come
obiettivo quello di farla soffrire. Per esempio, alcuni studi condotti su
colpevoli di incendi hanno stabilito una classificazione di tali reati in
incendi diretti alla persona o diretti agli oggetti, ed espressivi o
strumentali, dimostrando un’associazione tra queste categorie e le
caratteristiche del colpevole: solitamente l’incendio diretto a colpire una
persona è commesso da individui con problemi psichiatrici, con un background
criminale o antisociale; gli incendi con modalità strumentale diretti agli
oggetti sono solitamente associati ad individui con backgruond criminale;
infine, gli incendi diretti ad oggetti con modalità espressiva sono tipici di
adolescenti. La terza forma di aggressività che viene definita predatoria è pianificati, propositiva ed espletata senza
coinvolgimento delle emozioni. Gli atti aggressivi di tipo predatorio tendono
ad essere regolati, controllati e pianificati; presentano una mancanza di
affettività e normalmente sono diretti verso persone estranee e chi li compie.
Esempi di questo tipo possono essere rintracciati tra alcuni omicidi seriali,
violenze sessuali seriali, ma anche quelle di gruppo.
Gli studi sull’aggressività
hanno prodotto una varietà di approcci teorici – da una parte le spiegazioni
biologiche e dall’altra quelle psicologiche-, che possono essere viste
complementari piuttosto che come alternative. Tra le spiegazioni biologiche
troviamo la prospettiva etologica che si basa su uno studio comparato fra mondo
animale e mondo umano. Secondo Lorenz, per esempio, l’organismo produce
continuamente un’energia aggressiva che si manifesta in un comportamento
aggressivo quando la quantità di energia accumulata dall’organismo non può
essere più contenuta, oppure quando diventano troppo forti gli stimoli esterni.
Più è bassa l’energia interna, più forti devono essere gli stimoli esterni, e
viceversa, per provocare una risposta aggressiva. Una delle critiche che viene
rivolta all’applicazione della teoria di Lorenz al comportamento umano sta nel
fatto che negli esseri umani una volta scaricata l’energia interna la spinta
all’aggressione non si esaurisce fino a quando non viene ribadito un livello
sufficiente di energia: gli uomini, infatti, possono mettere in atto una serie
di comportamenti aggressivi in successione, che solitamente scatenano nuove
reazioni aggressive piuttosto che tendere a sopprimerle. Secondo la prospettiva
della sociobiologia, che applica la teoria evolutiva alla spiegazione del
comportamento sociale, il comportamento aggressivo è da considerare adattativo,
ovvero è un comportamento che aumenta la possibilità di sopravvivenza della
specie. Per esempio, i maschi aggressivi prevalgono su quelli meno aggressivi
per la conquista delle femmine nell’accoppiamento e, quindi hanno maggiori
possibilità di trasmettere i propri geni, aggressivi, alla nuova generazione.
Questo meccanismo evolutivo spiegherebbe il comportamento di stupro negli
uomini come una scelta da parte di coloro che altrimenti avrebbero scarse possibilità di riprodursi
attraverso relazioni sessuali consensuali. In realtà, questo approccio non
tiene conto del fatto che questo meccanismo è mediato da fattori culturali: in
merito al loro peso nel determinare il comportamento aggressivo il dibattito
psicologico e biologico è tutt’ora
aperto. Secondo la prospettiva della genetica del comportamento, il
linea con la sociobiologia, l’aggressività è codificata nel nostro patrimonio
genetico. Studi condotti su gemelli omozigoti e su bambini adottati portano
alla conclusione che sia i fattori genetici che quelli ambientali svolgono un
ruolo fondamentale nello sviluppo del comportamento aggressivo.
Da questo modello si è poi
sviluppato un approccio più completo che tiene conto della valutazione cognitiva
come mediatore. Con la teoria del neoassociazionismo cognitivo Berkoviz ha osservato che solo quando la frustrazione
suscita emozioni negative si trasforma in aggressività. Una situazione di
questo tipo genera un iniziale stato negativo indifferenziato che può portare a
due reazioni impulsive: il combattimento o la fuga. Questi due stati emotivi di
base vengono poi elaborati in stati più complessi attraverso una valutazione
cognitiva della situazione, dei suoi esiti potenziali, dei ricordi ed esperienze
simili e delle norme sociali legate alle espressione delle emozioni. Quindi il
fatto che un individuo reagisca aggressivamente ad una situazione dipende da
come questa viene interpretata dal soggetto.
Sempre su questa linea
l’approccio sociocognitvo prevede che il comportamento aggressivo sia
controllato da script acquisiti durante i primi processi di socializzazione.
Essi sono strutture di conoscenza acquisiti attraverso l’esperienza contenenti
gli aspetti caratteristici di una situazione, le aspettative circa il
comportamento dei partecipanti e le conseguenze dei diversi comportamenti, per
esempio, se un bambino ha assistito ripetutamente a conflitti irrisolti con
l’uso della violenza, svilupperà uno script in cui conflitto e violenza sono
strettamente connessi e l’applicherà nella vita quotidiana.
Secondo la teoria
dell’apprendimento il comportamento aggressivo non è una tendenza innata
nell’uomo poiché gli script vengono acquisiti nell’infanzia attraverso processi
di condizionamento strumentale, ovvero di apprendimento attraverso rinforzi e
punizioni, e di modellamento, cioè attraverso l’esposizione al modello. Il
recente approccio sociointerazionista descrive le azioni coercitive, che
possono essere la minaccia o la punizione fisica, come frutto di un processo
decisionale.
La maggior parte di noi è
affetta, senza accorgersene, da una sorta di piccola psicopatologia sociale
collettiva, quella di un’aggressività pret-à-poter, cioè sempre pronta,
fruibile in ogni occasione. Ci sono varie forme di aggressività:
• aggressività premeditata: quella in base
alla quale decido, domani di compiere un gesto ostile, negativo, nei confronti
di una persona verso cui nutro un profondo risentimento;
• aggressività impulsiva, che sfugge dl tutto
al nostro controllo, e che scaturisce da un gesto rapido, improvviso che il
cervello non riesce a soffocare, tradendo una nostra incapacità di trattenerci
dal compiere determinate azioni;
• aggressività passiva, che ci porta a
ignorare chi ci sta di fronte, a non riconoscerlo come individuo, facendo finta
che per noi non esiste.
Chi detta legge nel nostro
cervello, chi tiene banco per esprimere o inibire la rabbia, è quello che
potremmo definire il “circuito della rabbia”, e cioè la corteccia prefrontale,
l’amigdala e l’ipotalamo, e altri centri nervosi.
La corteccia prefrontale è
una zona del nostro cervello che svolge un po’ il ruolo di tutor interno, il
garante, supervisore del nostro comportamento. Ha il delicato compito, come un
attento guardiano, di tenere a freno, inibire la rabbia, l’aggressività e la
moltitudine di tutti gli impulsi. La corteccia prefrontale è anche la sede dove
vengono prese, pianificate le decisioni più opportune. In questa zona abitano
saggezza, prudenza, razionalità, esperienza e in quel senso il discernimento
necessario per riflettere, valutare, ponderare le conseguenze delle nostre
azioni e decisioni. In questo contesto l’amigdala gioca un ruolo centrale
perché rappresenta il principale "sponsor” sostenitore della rabbia.
All’amigdala si oppone, esercitando una funzione di controllo, di freno, la
corteccia prefrontale, che agisce come una sorta di “tutor biologico”, in
quanto cerca di ostacolare, impedire gli impulsi, i gesti e le azioni
improvvise che emergono nei vari contesti e conflitti. L’amigdala è in sostanza
una sorta di aggregato, raggruppamento di neuroni che abita nel cosiddetto
“sistema limbico”, un circuito all’interno del cervello predisposto a
realizzare le principali emozioni espresse dall’essere umano ed è specializzata
in questioni istintivo-emotive. Essa è raggiunta da stimoli di diversa natura,
che vengono rapidamente analizzati,
valutati in concerto con altri centri nervosi per decidere quale dovrà essere
le risposta più congrua, opportuna da dare.
In quel momento vengono
contemporaneamente interpellati, in una sorte di “consiglio di guerra”, la
corteccia prefrontale, l’amigdala e l’ipotalamo, che detengono un po’ la
leadership del nostro cervello. Quando arriva lo stimolo, tra i primi ad essere
consultata è la corteccia prefrontale, in quanto costituisce la parte più
saggia e ragionevole, che è in possesso di una maggiore esperienza, e quindi
invoca prudenza. L’obiettivo finale è quello di raggiungere un compromesso
vantaggioso fra le tre componenti del nostro cervello e concordare tra loro la
risposta migliore a qualcosa che suscitato una certa attenzione o paura.
Stimolando l’area limbica,
all’interno della quale si trova appunto l’amigdala, si sollecitano anche i
neuroni che compongono questo centro nervoso, provocando così reazioni di
aggressività e di rabbia a catena, che si propagano senza motivo, ai danni di
chi si trova presente in quel momento. Ma che cosa determina la perdita di
controllo, a livello del cervello, tanto da scatenare crisi di rabbia?
Si verifica una sorte di
“corto circuito”, di cattiva comunicazione tra la corteccia prefrontale, la
parte del nostro cervello preposta a controllare, mediare, e l’amigdala, la
parte controllata, che ha invece una spiccata attitudine, propensione
all’attacco, all’azione. Spesso a prevalere è proprio quest’ultima, con il
risultato che ad imporsi nel nostro comportamento è la componente più
istintiva, impulsiva, con conseguenze spesso dannose e negative per noi e per
gli altri, perché si spalancano le porte della violenza. Molti studi
attribuiscono la causa di un’eccessiva aggressività a un ormone, il
testosterone, ma tuttavia non è solo questo, ma anche altre sostanze già
presenti nel nostro cervello, che hanno la funzione di realizzare i
comportamenti aggressivi. Si tratta di quei neurotrasmettitori come
l’acetilicolina, la dopamina e la noradrenalina che, in modo diverso,
facilitano la comparsa di comportamenti come la rabbia, l’impulso e la
violenza, spesso associati alla reazione aggressiva. Alle “truppe”
dell’aggressività così dispiegate si oppone soprattutto la serotonina, che
cerca di far valere il suo ruolo di contrappeso biologico, contrastando i gesti
e le azioni più impulsive, violente, tentando di impedire ai centri nervosi più
bellicosi del nostro cervello di scendere facilmente sul piede di guerra. Chi
compie atti criminali è mosso da un’aggressività premeditata o impulsiva,
espressione di una perdita di controllo dei propri istinti e delle proprie
emozioni. Ciò può condurre, per esempio,a uno smodato desiderio sessuale che,
se non adeguatamente bloccato, inibito, determina un comportamento che conduce
inevitabilmente a uno stupro, a una violenza sessuale. La “bussola” biologica
che orienta i criminali violenti, quelli che si macchiano dei reati peggiori, è
anche quella di disporre nel loro organismo di alto tasso di testosterone, che
gli spinge a compiere qualsiasi cosa, senza pensarci due volte perché in preda
ad una tempesta ormonale, che in quei momenti non risparmia niente e nessuno.
Studi recenti del 2007
effettuati attraverso la Risonanza Magnetica Funzionale, che studia il consumo
di ossigeno da parte di alcune aree cerebrali durante lo svolgimento di
compiti, mostrano la larga differenza nei determinati campi analizzati,
attraverso un confronto tra l’attività metabolica di alcuni soggetti di
controllo e quella di due soggetti già incriminati per gravi crimini seriali a
sfondo sessuale.
L’esperimento consisteva nel mostrare al
soggetto alcune immagini raffiguranti oggetti concreti (ad esempio un paio di
forbici), altre raffiguranti figure astratte inerenti emozioni (ad esempio la
gelosia) in modo da poterne rilevare la valenza emotiva attraverso lo scanner
di risonanza magnetica. La differenza tra i soggetti bisogna individuarla nelle
zone cerebrali opportune, risulta inutile indagare le aree visive, le aree
tattili (e così via!) perché qui troveremmo gli stessi valori sia nel caso in
cui osservassimo un soggetto criminale, sia nel caso in cui osservassimo un
soggetto di controllo. Piuttosto, se si analizzano le immagini della RMF
inerenti il lobo frontale dell’emisfero
destro, si nota che, nei criminali psicopatici studiati in questa ricerca,
l’elaborazione di stimoli emotigeni di tipo astratto causa un’ iper-attivazione
della corteccia prefrontale del cervello. Altra differenza si riscontra nelle zone più profonde del nostro cervello,
le zone limbiche, porzioni del cervello che governano le espressioni di
comportamenti più istintuali come quelli di rabbia, di aggressività, ma anche
il comportamento sessuale e quello alimentare, tutti elementi tra loro
collegati in fisiologia, in anatomia, in psicologia e in criminologia.
Nell’analisi delle regioni più profonde del cervello emerge qualche differenza
tra soggetti criminali o psicopatici e soggetti “normali”, poiché nei primi si
nota una maggiore attivazione dell’Amigdala, regione cerebrale coinvolta nel
comportamento emozionale sia quando i soggetti devono decifrare ed interpretare
correttamente le emozioni in ricezione, sia quando devono esprimere le proprie;
è per questo che i soggetti senza amigdala sono apatici e inerti, reagiscono
poco agli stimoli esterni con valenza emotiva, trattandoli come se fossero
stimoli concreti senza alcuna valore emozionale (per esempio: un soggetto con
amigdala ipo-funzionante alla vista di un serpente non proverà alcuna reazione
fisiologica di paura, ma anzi lo toccherà e lo accarezzerà tranquillamente);
contrariamente individui con iperattività dell’ amigdala mostrano un
comportamento esagerato sia nella decodificazione di emozioni provenienti dall’
esterno sia nell’ espressione delle proprie emozioni. Quindi, se volessimo
individuare le parti del cervello che possono avere maggiore interesse per la
psicologia criminale o, più in generale, per la criminologia, indicheremo la
zona prefrontale del cervello, soprattutto la parte destra e alcune regioni più
profonde come l’amigdala. Un altro studio di risonanza magnetica
funzionale mostra come siano presenti
delle differenze nell’elaborazione di emozioni alla vista di immagini negative,
emerge che vi è un aumento di attivazione nelle regioni del cervello dei
criminali psicopatici (anche questi serial-killer) rispetto a soggetti di
controllo ma ciò che si evince è una maggiore attivazione della zona del
cervello ritenuta fino a pochi anni fa non
in relazione con il comportamento, il “cervelletto”, zona che risulta
fondamentale per il controllo del movimento ed interviene nell’ elaborazione
delle emozioni e nell’ elaborazione del comportamento guidato dalle stesse.
L'odore
delle emozioni
Imagedi Paola Cerana
Quando Rocky mi corre
incontro scodinzolando e mi annusa non sente solo il mio odore. Non cerca solo
di scoprire se in mano nascondo un delizioso biscotto o l’odiosa spazzola per
strigliarlo. Il mio cane, in realtà, va a caccia di molte altre informazioni su
di me, che vanno oltre il senso dell’olfatto a livello epidermico. Lui sente
anche le mie emozioni! Mi studia, mi analizza, mi ‘ascolta’e sniffandomi con
quel suo tartufo nero e umido riesce a percepire se sono in vena di giocare o se
invece ho bisogno di coccole e quiete, se sto per rimproverarlo o se sono in
procinto di portarlo a fare una passeggiata, se sono eccitata o malinconica.
Senza che io dica nulla, lui mi capisce, inclina da un lato il suo testone e
con i suoi occhi profondi mi scruta attento, raggiungendomi laddove raramente
lo sguardo umano arriva. Mi comunica così la sua istintiva comprensione,
assecondando generosamente il mio stato d’animo e confermando ogni volta un
insostituibile rapporto empatico e affettivo.
Si sa, l’olfatto degli
animali è straordinario. Non solamente quello dei mammiferi ma anche quello di
molti insetti, tra cui le api che fanno concorrenza ai cani, sia in abilità,
sia in potenzialità di apprendimento. Ma anche noi umani utilizziamo
inconsapevolmente questo senso primario, spesso sottovalutato, nelle relazioni
di tutti i giorni, emotive, sociali e affettive. Ciò che il nostro naso
percepisce e trasmette al cervello a livello inconscio, si traduce a livello
conscio: prendiamo decisioni, traiamo conclusioni, mettiamo in moto azioni che
apparentemente non avrebbero nulla a che fare con gli odori che ci circondano,
eppure così non è. Non ne siamo quasi mai consapevoli, innanzitutto perché
vincono gli altri sensi, soprattutto la vista, e poi perché il nostro cervello
viene attivato da un odore mezzo secondo prima che noi stessi possiamo renderci
conto dell’effettiva presenza di quell’odore.
Siamo in balìa, dunque, di
profumi, aromi, odori, effluvi e puzze che suggestionano il nostro quotidiano
agire. E siamo, quindi, molto più simili ai cani di quel che pensiamo, anche se
forse non ci piace doverlo ammettere. Certo, non possiamo vantare la stessa
capacità di rilevamento degli odori, né la destrezza nell’annusare dei nostri
amici pelosi (anche se, con un po’ di esercizio, queste abilità possono essere
affinate e addestrate anche negli umani). Il vantaggio indiscutibile dei cani
su di noi dipende dal fatto che le cellule dei recettori olfattivi canini sono
venti volte superiori alle nostre, insieme ai geni correlati. Inoltre, quasi
tutti i cani, sono facilitati dal muso allungato, e comunque sempre più vicino
al terreno rispetto al nostro, in grado quindi d’infilarsi ovunque in maniera
rapida e flessibile. La natura ha consentito a noi umani di compensare queste
lacune sviluppando vertiginosamente tutti gli altri sensi, risparmiandoci così
anche molti effetti collaterali spiacevoli legati all’istinto di annusare. Per
esempio, la maggior distanza del nostro naso da terra non solo ha stimolato lo
sviluppo di una vista notevole ma ci ha consentito di evitare molte infezioni.
Sembra una banalità eppure è una conseguenza molto importante dell’evoluzione.
Il nostro olfatto resta tuttavia potentissimo, anche se i nostri nasi stanno
quasi sempre in stand-by, perché pur possedendo minori recettori olfattivi
riusciamo a percepire maggiori molecole olfattive rispetto ai cani, grazie
anche alla collaborazione del nostro raffinatissimo sistema gustativo. Almeno
così dimostrano gli esperimenti più recenti nel campo delle neuroscienze,
eseguiti tramite brainimaging.
Quindi, ciò che fa la
differenza tra l’olfatto di Rocky e il mio, non è tanto il naso, bensì il
cervello! Il sistema olfattivo umano costringe il cervello a lavorare su più
fronti, attivando aree neurali associate alle emozioni, alla memoria, alla
reazione motoria e al linguaggio. Un ingranaggio magnifico che, acceso da un
soffio, innesca un lavoro a catena miracoloso e infinito. L’aveva intuito
perfettamente Proust con la sua madeleine, senza essere ufficialmente uno
scienziato. L’attivazione contemporanea di più aree cerebrali consente, dunque,
un’elaborazione più significativa degli input olfattivi rispetto a quanto non
avvenga negli animali. Infine, il coinvolgimento del linguaggio corona le
nostre abilità olfattive, consentendo a scrittori come Proust di scrivere
pagine immortali e permettendo a nasi addestrati, come quelli dei sommelier o
degli analisti sensoriali, di classificare e descrivere sottilissime differenze
volatili che sfuggono alla coscienza della maggior parte di noi, facendo del
proprio naso una piacevole professione.
Una delle scoperte più
interessanti circa il sistema olfattivo, a livello neurologico, è quella che
rivela come operano e collaborano le due narici di fronte agli stimoli. Perché
le narici sono due? Non è solo una questione di simmetria e, dunque, di
estetica ma anche di specializzazione: ogni narice raccoglie aria da zone
spazialmente distinte davanti al nostro viso, nonostante la prossimità che c’è
tra loro. E’ facile dimostrare la difficoltà che si ha nella percezione di
certi odori tappando una narice, e viceversa: moltissime sfumature non vengono
colte da una singola narice. Per non parlare, poi, di quanti problemi devono
affrontare gli anosmici! Non ci si pensa, anche perché per fortuna la perdita
del senso dell’olfatto (anosmia, appunto) non è una malattia così frequente.
Non è nemmeno considerata invalidante ma chi ne soffre sa bene che disagio sia
non poter riconoscere gli odori: scambiare per buono un cibo disgustoso, non
accorgersi del gas rimasto inavvertitamente aperto in cucina o di un incendio
che divampa in casa durante il sonno. Sono tutte situazioni estreme, di
pericolo, è vero, ma l’anosmia conduce spesso anche alla depressione, perché è
dimostrato che l’esistenza di un anosmico è decisamente più triste, vuota e
sterile rispetto a quella di chi sa gustare i piaceri della vita con tutti
quanti i sensi.
Al di là degli innumerevoli
aneddoti che confermano scientificamente l’importanza di un senso così primario
come l’olfatto anche nell’uomo, è il risvolto emotivo che mi affascina di più.
Perché un profumo o un odore funziona un po’ come una musica: entrambe
stimolano umori e stati d’animo in maniera apparentemente irrazionale, tuttavia
i timbri di un profumo sono più subdoli degli accordi musicali. Mentre le note
hanno un nome, seguono una ritmica e una grammatica, gli odori sono spesso
sconosciuti, inafferrabili, effimeri, imprevedibili, cangianti, indefinibili.
Oltretutto chi può dire con certezza se quello che il mio naso avverte è
identico a ciò che percepiscono gli altri? Si tratta di un linguaggio
misterioso, intimo, ancestrale. Il fatto che qualche giorno dopo la nascita
siamo già in grado di riconoscere nostra madre dall’odore prodotto dalle
ghiandole apocrine delle ascelle e dei capezzoli la dice già lunga! Siamo
abituati a sentire l’odore materno già nel ventre, attraverso il liquido
amniotico e tramite questo comune denominatore riconosciamo persino l’odore dei
nostri fratelli dopo la nascita. Ed è altrettanto vero che una madre sa
riconoscere l’odore del proprio bambino tra tanti, solo annusando la sua tutina
o il lettino in cui è stato adagiato. Io stessa, dopo 15 anni dalla sua
nascita, fiuto inconsciamente la presenza di mio figlio e ho persino la
ridicola abitudine di annusare i suoi indumenti quando rientra la sera, come un
vero segugio sulle orme del colpevole, per scoprire eventuali tracce di bugie e
soprattutto di fumo. Cosa che, grazie al cielo, non mi è mai capitata. L’unica
eccezione all’infallibilità del fiuto materno riguarda i gemelli omozigoti, per
cui una madre può confondersi facilmente nel distinguere ciascuno dei suoi
figli. Questo conferma l’influenza genetica sulle firme olfattive ed è lo
stesso principio per cui ai segugi bastano pochissimi indizi olfattivi per
riconoscere una persona ricercata da un qualunque estraneo (a meno che, il
ricercato non abbia un gemello omozigote!). E sempre per restare nell’ambito
canino, anche noi ‘padroni’ siamo in grado di riconoscere l’odore del nostro
amato cane, anche solo annusando la sua coperta tra quelle di altri cani, a
prescindere dalla piacevolezza o meno del timbro olfattivo che emana. Se non è
amore questo!
Con tutte le conoscenze che
oggi abbiamo circa il funzionamento del nostro sistema olfattivo, forse si è
perso un po’ il senso misterioso e poetico di alcune relazioni umane a
vantaggio di spiegazioni chimiche e neurologiche sempre più infallibili. Così,
l‘amore, il sesso e persino la malinconia e la depressione potrebbero essere
spiegati attraverso molecole e sinapsi, perché i sensi dialogano strettamente
con le emozioni e si mescolano in quel sistema limbico, responsabile
dell’emotività e dei ricordi. In pratica, oggi sappiamo che se una persona ci è
istintivamente simpatica o antipatica può dipendere anche dalle sue secrezioni
endocrine che vanno a stimolare certe zone del nostro cervello; se
involontariamente eccitiamo una persona o ne siamo perdutamente attratti è in
buona misura dovuto alla tempesta dei nostri feromoni; se scegliamo di
frequentare più spesso un locale piuttosto che un altro, può dipendere anche
dall’atmosfera olfattiva che ci circonda; se alcuni nostri ricordi sono più
vividi di altri è perché vengono probabilmente associati ad effluvi, piacevoli
o spiacevoli, delle situazioni rievocate; e chissà, se di notte abbiamo un
terribile incubo o viviamo un sogno eccitantissimo, potrebbe dipendere
dall’influsso di odori subliminali che inconsapevolmente assorbiamo durante il
sonno. Un bel libro di Camilleri s’intitolava, guarda caso, “L’odore della
Notte” e ricordo che in quelle pagine si raccontava molto bene come la notte
sprigioni odori particolari, del tutto diversi da quelli del giorno.
Naturalmente era Montalbano a parlare e lui di fiuto se ne intende!
In conclusione, dovremmo
essere fieri di somigliare un po’ ai nostri amici cani, avrebbero molto da
insegnarci, aiutandoci a recuperare le nostre capacità olfattive primarie, da
addomesticare e utilizzare in maniera più consapevole. Ora ho Rocky, il mio
dolce molosso, che mi fa da guida oltre che da guardia e da compagnia. Venti
anni fa, invece, il cane che abitava con me era una bella femmina di setter,
furba e vivace, e si chiamava Tris. Una fredda sera di dicembre, Tris per tutto
il pomeriggio e in maniera del tutto inspiegabile, non volle uscire in
giardino, non mangiò nulla, si accoccolò seriosa sulla poltrona di fronte al
letto di mio padre e non si mosse di lì fino a notte fonda. Fino all’ora, cioè,
in cui mio padre spirò, dopo una lunga brutta malattia, senza che ci fosse
stato durante tutto quel giorno un evidente peggioramento del suo stato di
salute. Nessuno di noi, a parte il mio cane, aveva avuto sentore che qualche
cosa di nuovo e perfido stesse maturando inesorabilmente dentro il corpo ancora
apparentemente combattivo di mio padre. Noi umani potevamo usare il cervello
per pensare, supporre, immaginare, pregare, scongiurare o lasciarci illudere ma
non per ‘sentire’ con certezza la presenza dell’Invisibile.
Forse, persino la Morte ha
un suo odore.
Libroterapia
e disagio sociale: dalle letture di auto-aiuto alla biblioteca come luogo di
cura
del Dott. Francesco Paolo
Pizzileo - Assistente Sociale Formatore
“ O libro, sole d'inverno,
narri le tue storie i tuoi drammi e le tue angosce: sei come una persona,
perché entri nel cuore. Con la grazia di un angelo. Fai vagare il pensiero e la
fantasia in lontani ambiti e reconditi meandri. Penetri nelle più lontane
vicende e nei più disparati luoghi di questa grande Terra artificio e bellezza
di Dio “.
(Poesia scritta da un
paziente psichiatrico dopo una visita in biblioteca )
L’idea di auto-aiuto
attraverso i libri, detta libroterapia, è molto antica e risale all’epoca delle
prime biblioteche in Grecia.
Già Aristotele credeva che
la letteratura avesse effetti di guarigione e gli antichi romani riconobbero
l’esistenza di un rapporto tra medicina e lettura. Aulus Cornelius Celsus, un enciclopedista
dell’antica Roma, suggerì la lettura di opere dei grandi oratori come sostegno
nelle malattie.
In Europa, le biblioteche
entrarono a fare parte degli ospedali
psichiatrici intorno al XVIII° secolo, mentre negli Stati Uniti comparvero alla
metà del XIX° secolo.
Precisamente nel:
1840 → prima biblioteca in un carcere
(Sing Sing)
1901 → prime biblioteche negli ospedali
(Massachussets)
1910 → prime biblioteche presso alcune
divisioni dell’esercito (Iowa, Minnesota, Nebraska)
1920 → S.P. Delaney, bibliotecario
dell’ospedale per veterani di Tuskegee-Alabama, comincia ad usare i libri per
alleviare le sofferenze fisiche e psichiche dei reduci.
1937 → W.C. Menninger, parla di
libroterapia in un libro di psichiatria. Nella clinica dove lavora la tecnica è
utilizzata nel trattamento della malattia mentale, all’interno di un progetto
riabilitativo.
A cavallo di questi due
secoli molti medici cominciarono a consigliare libri per le difficoltà emotive
dei malati di mente mentre, nel campo
dell'istruzione, gli insegnanti lo iniziarono a considerarlo utile alla
promozione della crescita culturale e sociale dei loro studenti alla metà del
XX° secolo.
Dal 1950, la lettura
selezionata ed i gruppi di lettura ha un’ ulteriore svolta educativa e
terapeutica: i libri di auto-aiuto concorrono al trattamento
dell’alcolismo.
I lavori sull’auto-aiuto
attraverso i libri progrediscono negli anni ‘60 in settori come la
tossicodipendenza, la fobia, il lutto ed altre situazioni di disagio
esistenziale e sociale.
Negli ultimi decenni la
libroterapia si è andata lentamente consolidando sulla base dell’ esperienza di
consapevolezza che intorno ad un libro - romanzo, fiaba, poesia - ruotino dinamiche in grado di
mettere in moto vissuti di integrazione e di crescita di sé, sia dalla parte
del lettore che dello scrittore, e che dunque non sia piu’ sufficiente
confinare la fruizione di un libro nell'ambito di una dimensione puramente
evasiva e intellettuale.
Nel momento presente la
pratica della libroterapia entra a pieno titolo nell’area delle discipline
dell'arte-terapia e trova sostenitori nell'ambito medico, letterario,
psicologico, sociale, religioso, solistico; è una tecnica di auto-aiuto che
consiste nella scelta selezionata di letture guidate e personalizzate
finalizzate alla gestione o risoluzione di problematiche personali o
collettive. Essa è diretta a bambini, adolescenti, adulti, anziani perché un
libro scelto con criterio e obiettività aiuta chiunque a riflettere su di sé, a
confrontarsi, a potenziare le capacità
cognitive ed emotive, a sviluppare risorse manifeste o latenti ed
abilità empatiche, acquisendo conoscenze
ed elaborando strategie di gestione del disagio psicologico e relazionale, oggi
molto diffuso.
Esempi significativi di come
la lettura guidata possa costituire un valido strumento per affrontare sfide
sociali e per gestire problemi personali sono quella dell’Agnoterapia,
l’applicazione della libroterapia alle persone della terza e della quarta età,
e quella delle letture guidate per gli adolescenti ed i bambini a rischio di
bullismo a scuola.
• Nel primo caso, L. Binah,
direttrice del Day Care Center for the Elderly di Kiryat-Tivon, in Israele, ha
sviluppato un trattamento gerogogico-terapeutico che ha lo scopo di donare
serenità, conforto e maggiore auto-consapevolezza alla persona anziana,
alleviando le conseguenze delle più comuni cause di disagio psicologico e sociale
legate all'invecchiamento cerebrale come vulnerabilità allo stress, ansia,
depressione, demenza e malattia di Alzheimer.
Il metodo è basato sull'uso
gerogogico dei brevi racconti di S.Y. Agnon, scrittore di origine ebraica,
premio Nobel per la letteratura nel 1966. L'attività condotta al Day Care
Center for the Elderly ha dato incoraggianti risultati. Le storie brevi si
prestano meglio all'uso terapeutico perchè la finestra temporale di
concentrazione degli anziani è breve.
L. Binah ha pubblicato recentemente
un resoconto del suo lavoro su The Journal of Poetry Therapy insieme con K.
Or-Chen, ricercatrice presso la School of Social Work dell'Università di Haifa.
Come le storie e le favole
rappresentano il nutrimento per l'immaginario del bambino - argomento questo
che tratteremo ed approfondiremo nella prossima lezione - le storie che si
raccontano ad un anziano favoriscono l'identificazione e riannodano i fili - a
volte frammentari e confusi - della propria storia. Ma non si tratta di un
ritorno regressivo all'infanzia.
La persona anziana non
ricade mai nell'infanzia, sostiene B. Cyrulnik, neuropsichiatra francese
responsabile all'ospedale di Toulon delle ricerche in etologia clinica sul
fenomeno della resilienza; le persone anziane rispondono meglio alle proprie
rappresentazioni che alla realtà che la circonda.
Il mondo non è più attorno a
loro ma vive dentro di loro, nella loro memoria.
La strategia adottata dalla
Agnoterapia tende a favorire la rappresentazione della realtà.
Se nella vita sperimentata
dall’anziano le sofferenze sono quasi insopportabili, il distacco dato dalla
rappresentazione e la ricerca di un significato da condividere, può renderle
più accettabili.
Leggere in gruppo ed
analizzare un racconto, smontandolo in più parti, può servire a comprendere
alcuni processi mentali, ad esempio, che cosa fa sì che due persone poste nella
medesima situazione reagiscano con modalità differenti, chi in maniera positiva e propositiva, chi in
maniera negativa e sopraffatta dal senso di impotenza.
I racconti di S.Y. Agnon
vengono scelti appositamente per mettere in luce personaggi che aiutano ad
auto-trascendersi e che riescono a trasformare la propria sofferenza in una
esperienza costruttiva, seguendo la strada della resilienza e
dell’auto-efficacia.
• Nel secondo caso,
l’integrazione della letteratura di aiuto nel percorso scolastico dei minori a
rischio di bullismo comporta quattro semplici passaggi:
1- la definizione del problema;
2- la determinazione delle
sfide che si affronteranno;
3- la selezione di libri da
utilizzare come libroterapia;
4- la pianificazione delle
attività di lettura guidata che permetterà di raggiungere gli obiettivi.
Lo scopo generale dell’
intervento educativo è la riduzione delle prepotenze e la promozione di un
migliore clima di classe, da perseguire attraverso la lettura di libri adatti
con l’analisi e la mobilizzazione delle principali difficoltà relazionali
presenti nel gruppo degli alunni.
Ogni episodio di prepotenza
è infatti un chiaro indicatore di una qualche carenza socio educativa, è il
segnale che qualcosa agli adulti è sfuggito, o perchè non l'hanno visto (quindi
un errore di percezione) o perchè non ne hanno saputo cogliere il senso vero
(quindi un errore di interpretazione). Il bullismo è infatti un'esperienza che
i bambini e gli adolescenti non dovrebbero fare.
La scuola conferma la sua
importante funzione educativa e di socializzazione, in particolare nella
costruzione dell'autostima e nello sperimentare ed acquisire abilità sociali,
tuttavia, non tutti gli episodi di bullismo avvengono all'interno della scuola,
ma essa è l'ambiente dove più facilmente si possono contrastare e prevenire. La
scuola ha la responsabilità di fare sentire al sicuro i bambini. Se i
comportamenti prepotenti vengono lasciati continuare possono avere un effetto
molto negativo sul bambino o sull’adolescente che stà subendo le prepotenze (la
vittima). E se ai piu’ giovani è permesso di compiere episodi di bullismo sui
coetanei è molto probabile che cresceranno compiendo prepotenze o picchiando il
partner ed i propri figli.
Essere oggetto di bullismo è
molto inquietante per la vittima ed è una questione che deve essere affrontata.
Ecco un esempio di come la
libroterapia potrebbe essere implementata in una classe.
1. L'insegnante decide di affrontare il
problema del bullismo in classe.
Dopo la ricerca e la selezione di un certo
numero di testi, l'insegnante decide di usare il libro Un anatroccolo tutto da
ridere. Chi di noi non conosce la storia
del brutto anatroccolo, un po’ ridicolo nella sua diversità ? E quanti di noi
avranno gioito nello scoprire la sua straordinaria metamorfosi in un
elegantissimo cigno bianco ? Tutti, insomma, abbiamo fatto il tifo per lui,
anche con un tocco di sana immedesimazione. Sappiamo che, sin dai primi attimi
di vita, fu schernito ed escluso dalla sua piccola comunità e, cosa certo più
dolorosa, dai suoi stessi fratelli. Ciò che invece la fiaba di Andersen non ha
tramandato è lo spirito che permise al brutto anatroccolo di sopravvivere alla
derisione e all’isolamento.
2. L'obiettivo di questa attività è aiutare
gli studenti a capire che schernire con le mani un compagno di classe non è un
comportamento adeguato.
3. Le attività di
libroterapia si svolgono con le seguenti fasi:
a-
L'insegnante chiede agli studenti di scrivere tutte le cose che con le
mani si possono fare ( non solo quella di aggredire gli altri ).
b- L'insegnante chiede agli
studenti di condividere alcune delle cose che hanno scritto con i compagni.
c- Dopo
che ogni studente ha letto la propria lista davanti agli altri compagni,
l'insegnante introduce il libro Un anatroccolo tutto da ridere.
d- L'insegnante legge il libro ad alta voce in
classe.
e- La classe discute il
libro. Il punto focale della discussione
è perché le mani non devono essere usate per colpire.
f - L'insegnante chiede agli studenti di scrivere
perché le mani non devono essere usate per colpire.
g- La classe crea un
decalogo sul perché le mani non devono essere usate per schermire e aggredire.
La libroterapia applicata
all’ età evolutiva può essere implementata con qualsiasi altro tipo di libro
che si presta al problema che si intende affrontare.
Essa puo’ essere adottata a
beneficio di piccoli o grandi gruppi di studenti, oltre che a vantaggio di
singoli studenti, e può essere un’ottima strategia per l'insegnamento delle
competenze necessarie per lavorare efficacemente con un partner o in
gruppo.
Oggi lo scopo generale della
lettura dei libri come terapia aggiuntiva alla risoluzione di problematiche di
salute è triplice:
1) Lettura individuale di
auto-aiuto :
I self-help books, molto
diffusi in America dalla metà del XX° secolo, sono consigliati da assistenti
sociali, psicologi, insegnanti, ma anche da avvocati, bibliotecari, commessi di
librerie, amici, noi stessi.
Lo psicologo R.A. Mar, della
York University di Toronto, recentemente ha condotto alcuni studi sugli effetti
della esposizione prolungata alla lettura di libri di narrativa su un campione
di mille persone; è emerso che coloro che avevano letto un racconto
rispondevano in modo migliore ad un test sulle interazioni sociali rispetto alle altre persone che partecipava
all'esperimento le quali invece avevano letto solo un articolo su una rivista.
Un esempio significativo di
lettura individuale di auto-aiuto è il caso di Juanita: uno studio fu
effettuato nel 2005 dagli studenti di “Bibliotecología y Documentación”
dell’Università Metropolitana di Santiago del Cile condusse all’evidenza che la
somministrazione di libri adeguati ad uno specifico caso di disagio possa
concorrere ad aggiungere o recuperare benessere alla persona. Juanita è una
bimba di 9 anni, vittima di abusi sessuali e affetta da ritardo
cognitivo-intellettuale.
Il trattamento si svolse con
18 sedute di libroterapia:
1ª-7ª seduta: la piccolo
Juanita lesse due libri “Little’s Bear Happy” e “Face/Sad Face Book”;
8ª seduta: le fu proposta la
lettura del libro “Mi primera enciclopedia de Educación Sexual”;
9ª-17ª seduta : “Caperucita
Roja”;
18ª seduta: “Mi cuerpo es
mio”.
A compimento del ciclo, la
giovane Juanita ha mostrato chiari segni di recupero del proprio benessere
psicologico e fisico rispetto al trauma subito.
2) Lettura collettiva
guidata:
- Pazienti con danni
cerebrali: si realizzano momenti di lettura collettiva, discussione e confronto,
in presenza di uno psicologo o di un assistente sociale.
Portiamo l’esempio dell’Ohio
dove, negli anni Settanta, J. C. Hynes, medical librarian presso il Wade Park
Veterans Administration Hospital di Cleveland, compose un gruppo, detto Club
21, formato da 21 pazienti disabituati alla lettura, definiti non-readers, con
danni cerebrali di notevole gravità: ictus, senilità precoce, parkinson,
alcoolismo cronico.
Il gruppo di pazienti
partecipo’, in una sala di lettura dedicata all’interno della struttura
ospedaliera, ad incontri collettivi di lettura ad alta voce condotti dalla
bibliotecaria che per il trattamento utilizzo’ materiale di livello elementare,
testi brevi e semplici, filastrocche, poesie, racconti illustrati.
- Pazienti affetti da
alcolismo: si svolge con lettura individuale e frequenti contatti con
psicologi, incontro e discussione finale, con persone affette dallo stesso
problema.
Negli Stati Uniti una
indagine degli anni Novanta sulla cura dell’alcolismo (Epidemiologic Bulletin)
ha evidenziato come i 2/3 circa della popolazione americana beve regolarmente
bevande alcoliche; il 7% degli americani ammette di soffrire di dipendenza e
abuso di alcol (circa 14 milioni di persone).
Nel 2003 il “Journal of
Clinical Psicology” ha analizzato 22 studi sull’applicazione agli alcolisti
della libroterapia come lettura guidata. Dopo 6 mesi dall’inizio del
trattamento il 13% degli alcolisti ha migliorato leggermente la propria
dipendenza, il 25% di essi ha ridotto sensibilmente il consumo di bevande alcoliche.
Dopo 12 mesi il 40% degli alcolisti si è dichiarato non più dipendente
dall’alcool. Dopo 24 mesi la stessa percentuale ha raggiunto la totale
astinenza.
3) Biblioteca come luogo
protetto e di reinserimento sociale:
La biblioteca puo’ offrirsi
come ambiente sereno di riunione per persone in difficoltà, dove alla
tranquillità dello stare in un luogo sicuro si unisce la consolazione offerta
dalla lettura.
→ Le iniziative UNICEF per
le giovani vittime della guerra in Croazia all’inizio degli anni ’90: progetto
“Step by step to Recovery”.
Il progetto ha coinvolto 14
città croate, 22 biblioteche, 2732 bambini. Il team, composto da bibliotecari,
psicologi ed insegnanti, ha utilizzato libri, audio-cassette, giochi,
rappresentazioni con marionette. I sintomi post-traumatici nei bambini sono
diminuiti del 73%.
Altre importanti esperienze:
- “In the world of Fairy
Tales of Ivana Brlić-Mažuraníc”: 20.000 bambini coinvolti, seminari itineranti,
rivolto agli insegnanti;
- “Early Childhood Care and Development in the
Republic of Croatia”;
- “Promotion of the Rights of the Child”.
Dal 1991 al 1994 è stato
registrato il 100% di aumento degli utenti delle biblioteche pubbliche croate.
Per di più, la biblioteca ha
costituito un luogo di lavoro per chi, guarito o in fase di guarigione,
risultasse idoneo a svolgere una mansione in essa, con possibilità di coniugare
l’acquisizione di competenze pratiche e il potersi relazionare con altre
persone in un contesto “non protetto”.
→ Le esperienze di
libroterapia applicata alla cura dei problemi di salute:
- dislessia (Danimarca e
Giappone)
- depressione (Lituania)
→ I progetti di libroterapia
come supporto per l’integrazione sociale:
- il movimento ACCES
(Francia)
→ Strumento alla lotta nelle
emergenze del pianeta:
- il Banco del Libro (Sud
America )
- la battaglia contro l’AIDS
(Africa)
Volendo riassumere
l’argomento trattato e focalizzarne i punti salienti, è possibile affermare
che, nel momento presente, la cura attraverso la lettura, fà parte degli home
works, compiti che le persone in difficoltà svolgono a casa come parte
integrante ed aggiuntiva della loro terapia e che molti clinici ed educatori
consigliano loro come strumento di crescita cognitiva e socio-affettiva nel trattamento
psicoterapeutico e sociopedagogico.
L’obiettivo condiviso è la
promozione dell’empowerment della persona, lo sviluppo di risorse, il
potenziamento delle life skills, ossia le capacità di coping, l’
auto-efficacia, l’autostima,
l’assertività, il problem-solving, la comunicazione efficace.
“ Ecco la terapia più
terapia di tutte: curarsi con i libri.
Ce ne sono un’infinità, non
scadono mai, e puoi decidere tu tempi e dosaggi. Per qualsiasi disturbo,
carenza o bisogno, i libri curano, nutrono, confortano”
( Rosa Mininno )
Tuttavia la libroterapia si
riferisce anche all’auto-cura, all’auto-aiuto, dunque un libro di auto-aiuto,
scritto da professionisti di aiuto o da
chi ha vissuto il problema, è un utile
supporto, ma anche un romanzo può essere
stimolante e nei suoi personaggi ci si può immedesimare e nella storia si
possono ritrovare analogie e richiami alla propria storia personale, suscitando
emozioni e riflessioni.
In chiave psico-educativa la
libroterapia può validamente essere indirizzata non solo alle persone
sofferenti, ma anche ai loro familiari con risultati molto interessanti e
nell’intento di costruire un clima terapeutico o pedagogico che favorisce la
partecipazione, l’alleanza terapeutica, la conoscenza del problema, lo sviluppo
di risorse e la capacità di gestione del disagio psicologico e relazionale.
Un buon libro è strumento
di conoscenza, crescita cognitiva,
psicologica e sociale nel percorso di
tutta la vita.
Di tutto questo, e di altro
ancora, parlo nel mio Corso on line in “Educazione in Narrazione di Sè e
Scrittura Diaristica nei contesti del disagio giovanile”
(http://www.erbasacra.com./corsi), un compendio di dieci lezioni destinato ad
educatori, assistenti sociali, psicologi, insegnanti, infermieri pediatrici,
genitori.
Capire
ed esprimere le proprie emozioni
di Stefano Centonze
Se Tullio De Mauro definisce
l’emozione “un’intensa esperienza psichica accompagnata da reazioni fisiche e
comportamentali” e Robert Soussignan afferma che le emozioni danno ‘colore’
alle nostre esperienze quotidiane, è fondamentale identificare le nostre
esperienze e capirne le cause e le possibili conseguenze, anche perché – come
ha spiegato Paulo Lopes, psicologo della Yale University – “l’intelligenza
emotiva” favorisce la qualità delle nostre relazioni e aiuta altresì a regolare
le proprie emozioni.
D’altra parte,
l’intelligenza emotiva passa dalla nozione del bisogno dell’essere umano, in
quanto le emozioni affondano le proprie radici nei bisogni soddisfatti o insoddisfatti e sono prodotte da eventi che
hanno un legame più o meno forte con questi bisogni. E se, per esempio, la
tristezza ha le proprie radici in un bisogno di condivisione non soddisfatto o
nella solitudine di un individuo o nella trama di un romanzo o di un film
particolarmente crudi, o di un risultato sportivo negativo, capire il senso di
un’emozione, quindi, valutare i propri bisogni, verificarne la misura di
soddisfazione e individuare le cause che hanno prodotto quell’esplosione
emotiva senza soffermarsi alle più immediate ma interrogandosi sulle più
profonde, ci consente di analizzare più attentamente quanto ci è d’intorno e,
in un’ultima analisi, di capire per capirci.
Ma questo processo di
intelligenza emotiva non può rimanere fine a se stesso, ha bisogno di
estrinsecarsi e relazionarsi con il mondo: le nostre emozioni devono, quindi,
essere espresse, una volta identificate e capite.
Il superamento di queste due
conquiste – identificare e capire le emozioni – comporta il coinvolgimento del
nostro linguaggio, delle nostre capacità di espressione, nella cernita
interiore che noi facciamo nel nostro vocabolario, onde individuare le parole
giuste per manifestare ciò che proviamo senza che il fenomeno emotivo alteri
l’espressione. Sapere trovare le parole giuste e dare un nome a ciò che si
prova, parlarne con le persone vicine, condividere con chi ci circonda il
nostro mondo interiore, rende la vita più facile, migliora enormemente le
nostre relazioni sociali, se non addirittura la nostra salute.
Provare un’emozione e
comunicare agli altri le nostre impressioni con parole chiare, semplici, adatte
al nostro interlocutore rende quest’ultimo partecipe delle nostre esperienze e
gratifica enormemente noi stessi.
Alessandro Manzoni nel cap.
XI del suo capolavoro dice: “Una delle più grandi consolazioni di questa vita è
l’amicizia; e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui
confidare un segreto. Ora, gli amici non sono a due a due come gli sposi….: il
che forma una catena di cui nessuno potrebbe trovare la fine”. Ergo, le conseguenze
di questa condivisione sociale, che Manzoni chiama ‘amicizia’, delle emozioni,
sono soprattutto il rinforzo dei legami sociali fra il narratore e
l’ascoltatore. “L’emozione confidata suscita un’emozione congruente
nell’ascoltatore – spiega in un suo lavoro Moira Mikolajczak -: se la
comunicazione è facilitata, le persone si sostengono e si apprezzano di più”.
L’espressione delle emozioni
avrebbe un effetto positivo sulle relazioni sociali e uno studio condotto nel
1994 da Nancy Collins e Lynn Miller dell’Università di Buffalo ha dimostrato
che le persone che confidano informazioni “intime” sul proprio conto sono più
apprezzate di quelle che si limitano a informazioni “classiche”. Certo, è
importante sapere esprimere le proprie emozioni, perché da ciò derivano effetti
positivi o negativi a seconda della sù enunciata capacità. Tuttavia, le norme
sociali di alcune società o di certi ambienti professionali vietano di
condividere le proprie emozioni e il loro occultamento produce effetti
generalmente deleteri, come ha dimostrato James Gross, psicologo della Stanford
University.
Gross ha constatato “che il
semplice fatto di simulare l’emozione provata causa un aumento dei parametri
fisiologici associati, come se gli effetti mascherati dell’emozione si trovassero
rinforzati nel soggetto” e che le persone che hanno la tendenza a dissimulare
le proprie emozioni vivono meno emozioni positive e fanno esperienza di un
maggior numero di emozioni negative durante uno scambio verbale con gli altri.
Questi studi hanno dimostrato che il fatto di nascondere la propria collera
causa i disturbi del sonno in persone che soffrono di malattie coronariche e che questa “inibizione emotiva” prolungata
può alterare il funzionamento del sistema immunitario.
Quindi – come spiega Moira
Mikolajczak –, “saper dare un nome a ciò che si prova, parlarne alle persone
che ci sono vicine, condividere con chi ci circonda il nostro mondo interiore
sono componenti essenziali delle competenze emotive che rendono la vita più
facile e meglio adattata alla realtà sociale. E per di più migliorano la
salute”.
Questi studi dimostrano,
dunque, che la vita sociale, come quella di coppia, si basa in parte sulla
capacità di sapere controllare e opportunamente definire le proprie emozioni.
Una persona che sa mantenere il controllo di sé è sempre apprezzata in società
e in famiglia. Non solo, le persone con buone capacità di regolazione e di
comprensione delle proprie emozioni sono meno vulnerabili allo stress e agli
stati d’ansia e “contengono” più facilmente le malattie cardiovascolari e altre
patologie. Addirittura prevengono certi tumori, poiché, se negative, le
emozioni liberano ormoni e neurotrasmettitori (come il cortisolo e
l’adrenalina) che hanno effetti negativi sul funzionamento dell’organismo. Viceversa,
identificare, capire, esprimere, regolare e usare le proprie emozioni è
possibile e presenta numerosi vantaggi. Bisogna esserne consapevoli.
Sulle
tracce della filosofia Zen: la mindfulness
di Maria Novella Colluto
Oggi, l’arte della consapevolezza,
ossia la mindfulness, rappresenta un valido strumento di intervento
terapeutico, liberamente ispirato ai principi della filosofia Zen.
Si tratta della capacità di
prestare attenzione al dispiegarsi dell’esperienza, momento per momento, senza
farsi travolgere dal flusso dei pensieri, di vivere a pieno le esperienze
quotidiane e di guardare il mondo con rinnovato entusiasmo, esattamente come un
«artista Zen» si aliena dal mondo che lo circonda per esprimere la sua assoluta
spontaneità artistica, dando vita a una forma d’arte, sia essa pittura, teatro
o semplice calligrafia che sgorghi di colpo, senza essere né ripresa, né
ritoccata.
Operativamente la
mindfulness può essere definita da cinque fattori principali: non reattività
(percepire sentimenti ed emozioni senza dovervi necessariamente reagire);
auto-osservazione (rimanere in contatto con le proprie sensazioni e i propri
sentimenti anche quando sono spiacevoli o dolorosi); concentrazione (prestare
attenzione a ciò che si fa momento per momento); descrizione (essere capaci di
esprimere a parole le proprie convinzioni, opinioni e aspettative);
atteggiamento non giudicante (non criticarsi perché si provano emozioni
irrazionali o inappropriate).
Nell’ Arte della
consapevolezza, di Francesco Cro, apparso nel n. 62, anno VIII, di Febbraio
2010, del mensile di neuroscienze Mente
& Cervello, viene narrata l’esperienza condotta dal professor D. Siegel,
professore di Neuroscienze alla Havard Medical School. Siegel partecipa a delle
sedute di «meditazione mindful», sponsorizzate dal Mind and Life Institute
presso l’Insight Meditation Society di Barre, in Massachusetts, in cui gli
viene chiesto di sviluppare la massima consapevolezza di tutti gli stimoli
sensoriali e mentali, concentrandosi, inizialmente, sul proprio respiro, quindi
di sforzarsi a focalizzare la propria attenzione su di esso. In seguito,
vengono invitati i partecipanti a focalizzare l’attenzione sulle sensazioni che
provano a livello degli arti inferiori, passo dopo passo, durante le
«passeggiate meditative», che si alternano alle sedute.
Successivamente, viene
chiesto a Siegel un ulteriore sforzo: rinunciare alle parole! Sebbene il
professore, sulle prime, si senta impacciato, dovendo rinunciare alla
comunicazione verbale per esprimere le sue emozioni e i suoi pensieri, pian
piano, inizia ad accettare tutte le sensazioni e i pensieri, così come si
offrono alla sua consapevolezza, senza dispensare alcun giudizio.
Il quarto e il quinto
giorno, finalmente, la terapia inizia a produrre i suoi effetti nel paziente,
che comincia a cogliere, in modo consapevole, il flusso dei suoi pensieri,
delle sue sensazioni e dei suoi sentimenti: il professore, dunque, riesce a
rendersi conto dei propri stati mentali, che continuano a fluire e ad
avvicendarsi, come al solito, senza però assorbirlo e farlo prigioniero.
Rientrato a casa, Siegel,
arricchito da questa significativa esperienza, può certamente concludere che lo
stress e la sofferenza sono il risultato di una tensione tra ciò che viviamo,
cioè la nostra realtà quotidiana, e ciò che «dovrebbe» essere, secondo le idee
preconcette, alle quali la nostra mente si aggrappa. Egli sostiene che “se noi
fossimo più consapevoli”, soffriremmo di meno.
Ma cos’è la consapevolezza?
Secondo Francesco Cro, la
consapevolezza «mindful» è la capacità di guardare a ciò che accade dentro di
noi con più distacco, non identificandosi con le reazioni emotive automatiche e
con i pensieri involontari, che certamente esistono nella nostra mente, ma non
«sono» la nostra mente.
La consapevolezza, quindi,
ci aiuta a osservare queste reazioni senza esserne travolti, «come si osserva
il flusso di un fiume restando sulla sponda, senza farsi trascinare dalla
corrente», per riprendere le parole del Cro.
Naturalmente, risulta ovvio
che non si può eludere la sofferenza, ma quello che possiamo evitare è, quanto
meno, la «sofferenza fortuita»: l’angoscia creata dal flusso delle emozioni
automatiche. Una persona consapevole, quindi, riesce a sopportare meglio anche
i momenti di dolore, accettandone l’inevitabilità, proprio perché la
mindfulness ci insegna a sperimentare le attività quotidiane con un continuo
senso di novità, come fa un bambino alla scoperta del mondo, senza la quale
rischieremmo di sentirci vuoti e intorpiditi, proprio come chi guida con il
“pilota automatico”. Tale esempio incarna perfettamente il comportamento della
persona “non consapevole”, che reagisce alle situazioni senza essere
consapevole dei condizionamenti e senza riflettere sulle possibilità che ha a
disposizione.
Esistono strategie per
sfuggire dall’inconsapevolezza e dai tanti automatismi che governano la nostra
vita? Certamente, una di queste risiede nella consapevolezza «dal basso», ossia
nella meditazione che ci permette di dirigere l’attenzione sul nostro respiro e
ci riporta alla consapevolezza del presente, consentendoci di eccedere al
nostro essere.
Bisogna aggiungere che molti
terapeuti hanno sviluppato modelli di intervento clinico basati sulla
mindfulness, come il professor Jon Kabat-Zinn, biologo molecolare e professore
emerito alla University of Massachusetts Medical School, che ha dedicato la sua
vita professionale a integrare la mindfulness nella pratica medica
tradizionale.
Come risulta noto in Arte
della consapevolezza , Kabat-Zinn sostiene che la mindfulness è una capacità
intrinsecamente umana e sviluppabile in tutte le culture.
Questa, come tutte le
terapie mindful, mira, insomma, a promuovere l’armonia tra i vari aspetti della
nostra mente, tra noi e gli altri, a liberarci dalla tendenza a cadere in
reazioni automatiche a pensieri, sentimenti ed eventi, a sviluppare una
maggiore consapevolezza dei nostri stati interiori.
Sarebbe auspicabile, in
ultima analisi, come già è avvenuto negli Stati Uniti, promuovere
l’apprendimento della riflessione consapevole già in tenera età, visto e
considerato che una mente calma e focalizzata potrebbe risultare vantaggiosa
per affrontare la molteplicità delle incombenze, alle quali le generazioni
odierne sono chiamate a far fronte.
In definitiva, facendo
tesoro del prezioso insegnamento tramandato dalla filosofia Zen, un
atteggiamento mindful mosso, oltretutto, da diverse qualità, come la curiosità,
l’apertura, l’accettazione e l’amore, ci dispone meglio all’integrazione e alla
sintonizzazione con i diversi aspetti della nostra vita interiore e con le
persone che ci circondano, attraverso una partecipazione attiva e consapevole
al mondo, senza andare incontro a illusioni e malesseri, tipici
dell’inconsapevolezza e degli automatismi che spesso ci portano a vivere
distrattamente e in modo meccanico gran parte della nostra esistenza.