Una
psicoanalisi della bellezza: la genesi della poesia di Mallarmé come specimen
dell'arte moderna
di Roberto Pasanisi,
psicologo-arteterapeuta-italianista-scrittore-editore e giornalista
La poesia di Mallarmé, nella
fantasmagoria caleidoscopica delle sue significazioni – metafora della poesia
e,
insieme, sua essenza – appare sotto molteplici aspetti come l’universo
poetico elettivo per una comprensione approfondita dei meccanismi fondamentali
della genesi e della nascita d’un testo poetico.
L’intera sua poesia si
configura, da un lato, ed in uno con tutta l’arte moderna, come un grido di
ribellione e di protesta fra i più risentiti contro il tecnologismo, il
meccanicismo, lo scientismo e l’economicismo della modernità e della nascente
“Kulturindustrie” , nella direzione eroica dell’astrazione e della libertà;
dall’altro, come una
riconferma categorica del “valore estetico”, di fronte all’incombente “morte
della bellezza” di dannunziana memoria: ne nasce, romanticamente, una poesia
che tende senza posa ad un assoluto tanto più intensamente bramato quanto più,
nella disperata e pur lucidissima consapevolezza del poeta, inattingibile .
Quella che potremmo definire
la “nostalgia dell’assoluto” è, in questo senso, il sentimento primigenio dal
quale la musa mallarmeana comincia a spirare: il poeta, sul filo dell’idéal baudelairiano,
tenta di ripercorrere à rébours il faticoso iter che l’ha portato,
junghianamente, all’“individuazione; l’“omeostasi originaria”, quel prodigioso
sentimento oceanico di assoluta comunione col Tutto già provato nel caldo
ventre materno, è la luce abbagliante ma ormai irrimediabilmente lontana nella
quale l’artista figge comunque la malinconia en poète del suo sguardo
acutissimo .
Allora, come in una favolosa
reminiscenza platonica delle idee iperuraniche, la “nostalgia dell’assoluto”,
ovvero, altrimenti detto, la freudiana “ansia di ritorno al grembo materno”,
diventa in Mallarmé “nostalgia della bellezza” e, dunque, incessante sua
ricreazione nelle linee di una poesia che viene sfrondata, nella suprema
contemplazione neoplatonica dell’eîdos, di ogni sia pur labile elemento
esornativo, e quindi significante stricto sensu, per farne pura creazione – o,
meglio, ri-creazione – di bellezza,
ovvero “poesia-poesia”.
Quello che dice Hanna Segal
a proposito di Proust è certo sottoscrivibile tout court per il poeta parigino:
«Ho citato Proust perché egli rivela una così acuta consapevolezza di quanto io
credo sia presente nell’inconscio di tutti gli artisti, cioè del fatto che ogni
creazione è, in realtà, la ricreazione di un oggetto che un tempo era integro
ed era stato amato, ma poi s’è trovato ad essere perduto e rovinato, di un
mondo interno e di un Sé frantumati. Quando il mondo dentro di noi è distrutto,
morto e senza amore, quando gli oggetti del nostro amore sono in pezzi, e noi
stessi in un’impotente disperazione, allora dobbiamo ri-creare quel mondo,
riunire le schegge, rianimare i frammenti morti, ri-creare la vita» .
È evidente, come corollario
di queste parole, la sostanza al fondo narcisistica di tutta la poesia, ed in
particolare di quella d’amore: in questo senso, l’autobiografismo di Mallarmé
è, lato sensu, un autobiografismo integrale, essendo il referente ultimo della
sua poesia, privo com’è d’ogni referente reale, il Sé dell’autore. Ed è,
appunto, questo che chiarifica quella che potremmo definire l’“assenza
referenziale” della poesia del maestro francese: di una lirica che è tutta,
dunque, autoreferenziale e, perciò, profondamente narcisistica.
La via elettiva attraverso
la quale il poeta percorre la sua ascesa prometeica all’assoluto è,
neoplatonicamente e jimenezianamente, la bellezza: ed è così che Mallarmé
tenta, per dirla con la Segal, di “riunire le schegge”, di riordinarle, di
dare, id est, una forma alla bellezza.
Ci sovviene, a tale
proposito, quanto scrive Franco Fornari: «Muovendomi verso la definizione
dell’impressione naturale di bellezza, vorrei definire l’arte come una pratica
simbolica il cui scopo è quello di produrre un particolare ordo rerum,
destinato ad esprimere l’essenza affettiva dell’esistenza, in modo che essa possa
diventare rivelativa della divinità, intesa come sistema di valori assunti come
misteriosi e ineffabili» , ovvero del noumeno.
La “divinità” mallarmeana è,
scilicet, una divinità tutta laica: psicologica e filosofica; ma è anche un
tragico Giano bifronte: un lato del volto guarda verso la luce sublime
dell’assoluto; l’altro in direzione dell’abisso vertiginoso del nulla. Ed è,
perciò, e con drammatica contradictio in terminis (o cusaniana e montaliana
coincidentia oppositorum ?), una divinità intimamente nichilistica.
Il mare che il poeta solca
nel suo viaggio esplorativo è, naturalmente, quello – non meno periglioso – del linguaggio: «Come
ha rilevato Vattimo , nell’espressione gadameriana: “L’essere che può venir
compreso è il linguaggio” , sono presenti almeno tre livelli di senso. Ad un
primo livello, si legge che qualunque sia l’oggetto della comprensione, esso è
sempre linguaggio. Ad un secondo livello, si legge che il rapporto con le cose,
con il mondo, è pure un incontro di linguaggio (come aveva del resto precisato
Heidegger). Ad un terzo livello, si legge che – dal logos greco e dal verbum
medievale – , le cose in sé sono già abitate dall’organizzazione linguistica
operata dall’uomo: nel rapporto io-mondo, prevale il nucleo mondo-linguaggio,
il linguaggio come “orizzonte del mondo” . Così, il divenire del linguaggio è
intrinsecamente divenire del mondo» .
Di qui consegue una
particolare legittimazione di un’arte che opera sul linguaggio, come fa, con
gli strumenti d’un magistero senza eguali, quella mallarmeana, che si potrebbe
bene definire proprio come una “poesia sul linguaggio”, perché i referenti dei
suoi “elementi poetici” sono, in substantia, le parole stesse in quanto
assolute (nell’accezione etimologica di absolutus, “sciolto”). È così che lo
spazio bianco della pagina può divenire non più un puro elemento tipografico
sul quale dispiegare la sintassi della lingua, ma un luogo dell’anima, una
vividissima materializzazione dell’Inconscio del poeta, un territorio candido
eppure impervio su cui scandire il ritmo martellante della propria eroica,
jimeneziana obra en marcha.
Come dice Gadamer, «Avere un
mondo significa rapportarsi al mondo. Il rapportarsi al mondo, però, richiede
che si sia staccati da ciò che nel mondo ci viene incontro al punto da
poterselo rappresentare come esso è. Questo potere è insieme avere-mondo e
avere-linguaggio» .
Allora, per il poeta
parigino, il linguaggio viene a configurarsi come una struttura di
alterificazione del mondo da sé, ovvero come strumento conoscitivo che opera
attraverso l’oggettivazione: del resto, cos’è l’arte, in ultima analisi, se non
«una gnoseologia estetica ed un disvelamento» che si esprimono in una forma ?
Nel linguaggio
dell’Inconscio (e dell’arte), però, il rapporto fra significante e significato
non è più, saussurianamente, arbitrario, ma (in parte soggettivamente, in parte
oggettivamente) necessitato.
Infatti, «Freud paragonava
il linguaggio lavorato dall’inconscio ad un linguaggio non più alfabetico, ma
ideogrammatico o geroglifico (così anche Proust, nel Tempo ritrovato). Ora si
capisce il perché: se nessun legame di somiglianza naturale lega il bastone
come referente alla parola “bastone”, non così avviene nella simbolizzazione
affettiva, dove tra il bastone e il fatto esiste una similarità naturale. Il
simbolo affettivo si fonda dunque su similarità percettive».
«Insomma si può individuare
una simbolizzazione operativa che adopera concetti e significanti, ed una
simbolizzazione affettiva, preconcettuale, che opera sulle cose attraverso
rappresentazioni di altre cose» . Ed è questa la via non a caso scelta da
Mallarmé: quella di una poesia che potremmo definire “intellettuale”, algida al
punto che la sua componente affettiva (nell’accezione psicologica del termine)
sia non assente, ma tutta risolta e, per così dire, sublimata nelle ragioni del
suo astratto e simbolistico – o, a tratti, impressionistico – cerebralismo: in
questo senso, uno specimen emblematico, nella sua assolutezza, di quel
fondamentale meccanismo di difesa che è la “razionalizzazione”, via elettiva di
fuga dal mondo sconvolgente e primigenio delle emozioni .
Così Mallarmé – supremo
demiurgo – crea, attraverso la sua poesia, un mondo nuovo, parallelo a quello
reale, ma, come ogni mondo creativo, più reale di quello, anzi l’unico
autenticamente e pienamente reale, scevro com’è da ogni contingenza, da ogni
montaliano «scialo di triti fatti» .
Si tratta, insomma, di una
“poesia ontologica”, che ruota, in ultima analisi, intorno alla quaestio
antichissima dell’essere.
Come dice Proust, «un libro
è il prodotto di un Io altro da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini,
nei nostri vizi, in pubblico», perché «fra il pensiero dell’autore e il nostro
non s’interpongono quegli elementi irriducibili, refrattari al pensiero, dei
nostri vari egoismi. Il linguaggio stesso del libro è puro (se il libro merita
questo nome), reso trasparente dal pensiero dell’autore che ha eliminato dal
pensiero tutto ciò che avrebbe impedito a renderlo sua immagine fedele; ogni
frase, in fondo, simile alle altre, poi che tutte sono proferite
dall’inflessione unica di una sola persona; donde una sorta di continuità, che
i rapporti della vita escludono, e che permette agevolmente di seguire la linea
stesa del pensiero dell’autore, i tratti della sua fisionomia che si riflettono
in quel calmo specchio» .
Non potremmo trovare una
conferma più radicale della liceità di un’ermeneutica psicologica dell’opera
d’arte. D’altra parte, formazioni quali i miti, i simboli o l’arte esprimono un
“senso di realtà” che è in essenza diverso dalla categorie consuete di realtà,
né riconducibile alla tradizionale, riduttiva alternativa “reale/fantastico”.
Winnicott ha opportunamente parlato, a questo proposito, di una «terza area»,
potenziale, «transizionale» .
Scrive Cacciavillani: «[...]
proprio da Baudelaire a Proust il poeta è ad un tempo “déchiffreur” e creatore
di mondo nuovo, attraverso la metafora ontologica: X è Y, scavalcamento dei
codici e fondazione di universi paralleli. D’altra parte, come aveva detto
Jaspers (e come dirà anche Kerényi) , lo svelamento del segreto non è
dissipazione dell’enigma: «Il segreto è il prodotto derisorio del lavoro di
distorsione; l’enigma è ciò che è reso evidente dall’interpretazione» . Siamo
quindi, dopo un lungo giro, ritornati alla considerazione dell’ermeneutica più
come comprensione compartecipante che non come esplicazione razionalizzante:
compartecipazione alla struttura simbolica dell’opera.» . Ed è questo,
certamente, uno dei punti focali da tener presente in una lettura non impressionistica
né riduttiva o biecamente razionalistica dell’opera poetica di Stéphane
Mallarmé e del suo simbolismo, soprattutto per coglierne lo sforzo supremo, per
dirla kantianamente, di giungere, di là dal fenomeno, al cuore del noumeno.
Se è vero come è vero che,
novalisianamente, «La poesia rappresenta l’irrappresentabile» , allora, al di
là dei “significati minuti” ai quali si è troppo sovente appiccata la critica
mallarmeana più miope, va colto il significato nel suo insieme, visto che «Il
discorso poetico è l’equivalenza stabilita tra una parola e un testo, o fra un
testo e un altro testo» e, in via
generale, questa equivalenza sottintende in Mallarmé l’assoluto, ovvero il
nulla. La “comprensione” della sua poesia – ben distinta da un impossibile e
inadeguato “capire” – in effetti, può passare soltanto attraverso un approccio
al testo capace di rendere ragione fino in fondo del suo spericolato
funzionamento.
Partiamo dall’assunto che
«Una poesia risulta dalla trasformazione della matrice, una frase minimale e
letterale, in una più lunga perifrasi, complessa e non letterale. La matrice è
ipotetica, costituendo soltanto l’attualizzazione grammaticale e lessicale di
una struttura. Essa può venire compendiata in un’unica parola che, in tal caso,
non comparirà nel testo. La matrice è sempre attualizzata in varianti
successive, la forma delle quali è governata dalla sua attualizzazione prima o
primaria, il modello. Matrice, modello e testo costituiscono varianti della
medesima struttura.
La significanza di una poesia,
sia come principio di unità che come agente di obliquità semantica, è prodotta
dal giro vizioso compiuto dal testo mentre passa sotto il giogo della mimesi,
muovendo da una rappresentazione all’altra (ad esempio, da metonimia a
metonimia all’interno di una sistema descrittivo) onde esaurire il paradigma di
tutte le possibili variazioni della matrice. Quanto più risulta impervio
costringere il lettore ad avvertire l’obliquità e guidarlo passo dopo passo
attraverso la distorsione fuori dalla mimesi, tanto più deve essere lungo il
giro vizioso e sviluppato il testo. In un certo modo, il testo funziona come
una nevrosi: in quanto la matrice è repressa, lo spostamento produce varianti
lungo tutto il testo, proprio come i sintomi messi a tacere fanno breccia in
qualche altra parte del corpo» .
Il meccanismo di difesa è,
nel caso di Mallarmé, la “razionalizzazione”, che opera attraverso un processo
di sempre più ardua “astrazione intellettualistica”.
Del resto, «Già nel 1930, E.
Glover studierà il mondo della psiche in quanto macro-molecola (o,
simmetricamente, come molteplicità di nucleoli): egli scopre che la mente è
strutturata da formazioni nucleari di agglomerato. Ma non essendo mio intendimento tracciare qui
la storia di questo concetto, mi accontenterò di fermare l’attenzione sulla
nozione di “piccoli mondi interni” , che la più recente teoria del poetico
ugualmente trova quale struttura peculiare: il testo poetico è un modello
ridotto del mondo, un simbolo del mondo compresso in poche parole. Per cui la
poesia deve essere letta come reticolo metaforico, composto di isotopie che si
rapportano alle tre categorie dell’ANTHROPOS/LOGOS/COSMOS » . Queste
affermazioni trovano un corrispettivo particolarmente significativo, sul piano
biologico, nella “teoria modulare” del cervello.
In effetti, «Possiamo già
dire, per il momento, che la strutturazione prima del mondo avviene su base
fantasmatica e che i processi di pensiero sono basati sulla fantasia» .
Sotto questo rispetto appare
specialmente adeguato l’approccio teorico-esperienziale della Psicologia della
Gestalt, sia sul versante dell’affectus, sia su quello, altrettanto
fondamentale, dell’“organizzazione percettiva” .
«Solo l’immagine simbolica
si presta allo stretto grembo dell’elaborazione, mentre l’oggetto simbolizzato
rimane rimosso. Ma finché persiste il legame inconscio, l’immagine
simbolizzante non sarà dissociata e resterà impregnata di significati e
riferimenti inconsci. Il suo potere simbolico scompare non appena si sia
dissolto il reticolo inconscio» . Perciò, la lirica mallarmeana conferma – ove mai ce ne fosse bisogno – che la poesia è, in primis e
costitutivamente, Inconscio, id est sua epifania.
«La fantasmatica inconscia
indifferenziata rende tutti gli oggetti equivalenti» . La rima del poeta parigino
assume, da questo punto di vista, una valenza del tutto emblematica: si pensi,
a mo’ d’illuminante esempio, al celebre sonetto il cui incipit è “Ses purs
ongles...” , con la sua virtuosistica rima in /iks/, che trasforma la congeries
degli oggetti e delle immagini nella variatio di un unico tema musicale,
scandito dal Leitmotiv della “rima difficile”, quasi a strappare l’applauso
incontenibile ed ammirato d’uno stupefatto, immaginario uditorio.
«I ritmi creano le forme,
dice Leroi-Gouhran: prova ne sia che le prime rappresentazioni ritmiche
coincidono con la comparsa delle prime abitazioni: in tal modo il ritmo
temporale si coniuga col ritmo spaziale (ritmo del branco, confini, limiti,
rifugi)» . Come dire che il ritmo fonda la civiltà e la cultura.
In questo senso, «il
concetto più stimolante mi pare quello di “significante pazzo”, cioè “il
significante che non rinvia agli altri significanti nella vacuità dei segni
(...). Rumori, pezzi di corpo, proiezione nel materiale sonoro di pulsazioni
vitali dell’organismo” . Si pensa ad Artaud, ma ancor più a Beckett...» .
Tutto questo si accentua,
appunto, non solo nell’opera altissima di Mallarmé, ma in tutta l’arte moderna:
e certo non è azzardato leggervi, come segno costitutivo del “moderno”, una
progressiva “emergenza dell’Inconscio”, segno misterioso d’una civiltà in
dissoluzione, della quale il poeta, omericamente, è, nella forza assoluta e
sconvolgente del suo Urschrei, l’ultimo disperato cantore.
Psicologia
dello sport
di Maria Galantucci, psicologa-psicoterapeuta-psicopedagogista
La scelta tra sport
individuale e sport di squadra rappresenta per molti bambini e adolescenti una
decisione presa in modo poco consapevole rispetto alle diverse valenze
formative che si possono apprendere nei due differenti filoni.
Quando un bambino di 6 o 7
anni si trova a dover scegliere lo sport da praticare, nella sua decisione
hanno un ruolo determinante le influenze sociali esterne, più che le
motivazioni personali o interiori. Quel ragazzino, invece, dovrebbe essere
messo nella condizione di praticare la disciplina che più gli interessa e che
più si avvicina a ciò che sogna in quel momento.
I genitori, descrivendo con
cura le principali caratteristiche delle varie discipline sportive, dovrebbero
guidarlo verso una scelta consapevole, frutto dell’incontro tra le motivazioni
del ragazzo e le prospettive fisiologiche, cognitive e di socializzazione
insite in ogni sport.
La conoscenza delle
attitudini del ragazzo e soprattutto la corretta valutazione delle sue
predisposizioni e delle sue insicurezze sono i parametri fondamentali per
orientarlo verso la disciplina giusta. Orientare, non imporre.
Un errore ricorrente, che
alcuni genitori commettono e che rischia di compromettere l’autostima del
ragazzo, è indurlo o addirittura costringerlo a cimentarsi con la stessa
disciplina praticata in gioventù da un familiare, magari per ottenere
finalmente un riscatto personale rispetto a un successo tanto desiderato e mai
conquistato.
Ci si chiede se gli ostacoli
che si devono affrontare durante la pratica sportiva sono davvero capaci di
fortificare il nostro carattere, e quindi aiutarci a superare i limiti? A volte
sì. Per un adulto che soffre di ansia, per esempio, praticare uno sport ad alto
livello di stress potrebbe aiutare a superare il suo stato di prostrazione. Ma
un ragazzo in età tardo-puberale o pre-adolescenziale, con un’identità non
ancora definita e con le insicurezze del caso, trarrebbe sicuramente maggiori
benefici da una disciplina capace di ripartire l’ansia situazionale o di
“stato” per il numero di individui appartenenti a un gruppo più numeroso: in
una parola, la squadra.
Gli sport di squadra sono
consigliati agli adolescenti eccessivamente timidi, che hanno paura di
sbagliare e che temono il confronto individuale e il giudizio di chi li
circonda. Praticare uno sport di gruppo può aiutarli a conquistare una maggior
fiducia in se stessi, ma può giovare anche a chi, al contrario, “soffre” di
un’eccesiva sicurezza, di un’irruenza che si trasforma spesso in un atteggiamento
“prepotente” e un egocentrismo esasperato.
Gli sport di squadra si
addicono dunque a varie tipologie di adolescenti, e permettono loro di
conoscere la frustrazione e la delusione di un insuccesso senza trasformarli in
una sconfitta individuale.
Gli sport individuali,
invece, sono indicati in particolar modo per i ragazzi eccessivamente irruenti
e spesso iperattivi, quando la responsabilità è tutta sulle sue spalle, il
ragazzo deve mantenere una maggiore autodisciplina rispetto al coetaneo che ha
scelto di praticare uno sport di squadra. Infatti alcuni sport individuali, in
particolar modo le arti marziali, mirano a formare il ragazzo da un punto di
vista tecnico-fisico, ma soprattutto da un punto di vista della disciplina.
L’autocontrollo insegnato in
questi sport riesce spesso a incidere sugli atteggiamenti negativi di alcuni
adolescenti, modificandoli: dove non riescono la famiglia e la scuola, spesso
può intervenire lo sport.
Gli effetti a lungo termine
di questi due differenti modi di esercitare la pratica sportiva sono diversi:
la collaborazione, il senso di gruppo, lo spirito di competizione e il senso di
appartenenza sono le doti e le capacità che più si accrescono in uno sport di
squadra. In uno sport individuale, invece, il senso di responsabilità, la
disciplina e l’equilibrio psicofisico sono le qualità che si sviluppano
nell’atleta sin dalle prime gare.
In uno sport di squadra,
l’atleta, sia esso un adulto o un bambino, deve essere in grado di stabilire
con gli altri componenti del gruppo le migliori relazioni possibili. E
l’allenatore deve sempre tener presenti alcuni aspetti fondamentali per far
proseguire al meglio la propria squadra: il gruppo non può essere educato nel
suo insieme, ma ciascuno deve essere seguito in modo individuale anche se
in cooperazione con tutti
gli altri; occorre rinforzare le qualità
di ogni componente del gruppo, regalando a ognuno qualche motivo di
soddisfazione personale; la cooperazione è più utile della rivalità.
Un gruppo, infine, deve
sempre incoraggiare lo spirito di solidarietà, e favorire lo sviluppo di
relazioni positive. Questi principi riguardano in particolare
l’autodeterminazione, la spontaneità e la corresponsabilità dei vari componenti
del gruppo.
Per quanto riguarda, invece,
l’organizzazione di uno sport individuale, l’atleta in questi casi può
“permettersi” di impegnare tutte le proprie energie mentali unicamente sul
raggiungimento dell’obiettivo sportivo, senza badare troppo alle relazioni con
chi gli sta intorno. L’importante è che riesca a instaurare una buona sinergia
con l’allenatore, col quale dovrebbe crearsi un rapporto di fiducia.
Per concludere, sport
individuali e sport di squadra si diversificano in base alle modalità di
apprendimento e all’approccio mentale necessario per praticarli. Pressione
psicologica, motivazione, capacità comunicative
e di concentrazione, maturità caratteriale, senso di responsabilità sono
alcuni degli elementi più importanti da tenere in considerazione quando si
tratta di scegliere quale sport praticare.
Difficilmente si potrà dire
che uno sport è migliore di un altro; però, per conseguenza logica delle
peculiarità insite nelle due tipologie sportive, di sicuro si può affermare che
la pratica contemporanea di una disciplina individuale e di uno sport di
squadra può formare l’individuo sotto tanti aspetti, sia cognitivi sia
fisico-motori, e in modo più completo rispetto a chi decide di praticare un
solo sport.
GESTALT
ED EMOZIONI: la "logica" del sentire
di Carla Piccini,
psicologa-psicoterapeuta
Sentire è un’operazione che
condividiamo con gli animali: emozioni e sensazioni ci danno una conoscenza
diretta del mondo, che è insostituibile per vari motivi, fra cui quello che è
la fonte del piacere di vivere: vivere senza sentire è solo l’ombra della vita.
Pensare invece si fa con una
parte del cervello che si è evoluta solo nella razza umana, e quindi è
relativamente recente nella storia della vita sulla terra.
Pensare pone ogni cosa al
centro di una rete vastissima di significati, e apre possibilità straordinarie
alle persone. Quello che non può fare, è dare sensazioni: per quanto si pensi,
la vita non diventa più soddisfacente.
L’uomo è un dio quando sogna
(quando cioè sta in contatto con la percezione sensoriale delle immagini della
realtà), un mendicante quando pensa, diceva Holderlin.
Certo un’ottica pragmatista
permette di avere ragione più facilmente, dato che prende in considerazione le
contingenze esistenziali dell’interlocutore, ma la problematica esperienziale
non può essere contenuta e gestita solo logicamente, cioè semplicemente tramite
algoritmi, per quanto complessi siano, essendo l’esperienza qualcosa di vivo,
che analizzato, cioè scomposto in parti, diventa morto.
Così la Psicoterapia della
Gestalt implica necessariamente una conoscenza fenomeno-logica del mondo.
Una delle difficoltà
consiste in genere nel fatto che conoscendo fenomenologicamente si è costretti
a conoscere contemporaneamente anche se stessi, e non si può rimanere in
posizione asettica o comunque fuori dal contesto del rapporto.
Ma in che consiste la logica
dei fenomeni, cioè in definitiva, la logica del sentire?
Heidegger ha legato
indissolubilmente la fenomenologia all’esistenzialismo. Qui il problema non è
l’essere, ma l’esistere, cioè l’essere nel tempo.
Una logica del sentire si
svolge all’insegna della realtà organismica di chi esperisce: è una logica non
estraibile dalle innumerevoli esperienze che l’organismo ha fatto prima. E’
logico per esempio che una persona aggredita si arrabbi: è cioè plausibile e
probabile, ma non è certo.
Se non è certa la reazione,
infinite sono poi le modalità che questa reazione può assumere in ognuno, in
parte secondo tradizione, in parte secondo libera scelta.
La logica dei fenomeni non è
altro che l’arte del sentire, cioè l’organizzazione dell’esperienza in insiemi
dotati di senso esistenziale: come afferma Merleau Ponty, percepire è
un’espressione, dato che sentire è una restituzione a se stessi dell’esperienza
in corso.
Esprimersi, dunque,
significa assumersi la responsabilità di tutto ciò che accade nel mondo interno
e di tutto ciò che si esprime anche attraverso il proprio comportamento nel
mondo esterno.
Molto spesso il concetto di
espressione viene scambiato per “dico tutto ciò che mi passa per la mente”.
La Gestalt lavoro molto sul
mondo emozionale, ma non perché non dà credito al mondo cognitivo, al mondo
intellettivo, ma perché il mondo emozionale è il mondo che meno si sviluppa, a
cui si è meno allenati; ciò non toglie che questo vada poi integrato con il
mondo cognitivo.
Tutto questo per dire che occorre
chiedersi se ciò che si vuole esprimere ha senso o non ha senso per sé, cioè se
ciò che si vuole esprimere va incontro a ciò che sta accadendo e che cosa può
venirne indietro: in buona sostanza a cosa serve quell’espressione.
Ne consegue che esprimere se
stessi non ha niente a che vedere con l’aprire bocca e dargli fiato, ma
significa che si è in contatto con il proprio mondo interno, in modo
consapevole e lo si lascia fluire, accettando la responsabilità
dell’interazione con gli altri del proprio flusso emozionale.
In questo senso esprimersi
ha molto a che fare con il ben-essere del proprio corpo, oltre che della
propria psiche.
Se si riesce, infatti, ad
esprimersi momento dopo momento, consapevolmente ed accettando che il mondo non
sempre corrisponde alle proprie aspettative e che quindi non sempre fluisce in
armonia con la propria espressione, si permette anche al proprio corpo di
essere costantemente libero da pesi, da arretrati, da nodi allo stomaco,
permettendo così di fluire con la situazione.
Micro-esercitazione: siamo
abituati a credere che lì c’è il mare, ma di fatto il mare lo creiamo con i
nostri occhi nel momento in cui indirizziamo lo sguardo in quella direzione. In
questo momento se io non l’avessi nominato, voi non eravate in contatto con il
mare e quindi il mare non c’era. Quello che c’è esiste nel nostro mondo interno
nella misura in cui siamo in grado di crearlo, attraverso i nostri sensi e
attraverso le nostre emozioni.
Un’altra teoria della
conoscenza integrativa all’esistenzialismo è il costruttivismo, il quale
afferma che la conoscenza permette di interagire con la realtà: io sento
questo, a te fa questo effetto, a me questo fa quest’altro effetto e si tesse
una relazione, cioè una persona fa delle affermazioni, ha una posizione nel
mondo, un’altra persona prende atto, interagisce e tesse con questa posizione
una co-costruzione.
Il derivato fondamentale è
un cambiamento radicale dell’idea di verità: la verità non assoluta, ma
narrativa.
E’ uguale in campo estetico,
dove non ci sono leggi ed è uguale in campo etico, dove non esiste oggettività.
Per diventare un artista bisogna stare dentro l’esperienza, imparando a capire
cosa piace; il gusto estetico di un pittore lo si vede nel quadro che sta
facendo, il gusto etico lo si vive stando dentro il fenomeno.
Entrambi non sono mai
astratti dal contesto, ma sono relativi alla percezione dell’insieme dei fatti
che fanno una situazione, dell’insieme di se stessi, delle cose e delle persone
implicate.
Come si può percepire
qualcun altro?
Attraverso l’empatia che è
la capacità di mettersi nei panni dell’altro; un po’ come un quadro, che nasce
non solo da colori e linee, ma dalla tensione viva che c’è fra i colori e le
linee.
E’ impressionante osservare
la miopia emozionale di tanti esseri umani: quanto cioè sia difficile per molti
identificare con accuratezza le proprie emozioni e quanto sia frequente
rimanere, al contrario, incapsulati nell’involucro di pensieri che alle
emozioni si riferiscono.
“Pelare la cipolla” è una
metafora della Gestalt che esprime il lavoro necessario per risalire dalle
bucce di superficie ai vissuti più profondi e primari che generalmente si
nascondono sotto strati sovrapposti di meccanismi evitativi ed
automanipolatori.
E’ dire che cittadini della
nazione uomo sono gli istinti, che non possono essere ignorati senza pesanti
conseguenze.
Un istinto non è altro che
un bisogno primario, cioè inscritto nel codice genetico della specie.
Nell’etologia il funzionamento dell’istinto viene descritto come la
combinazione di tre componenti: un elemento attivante esterno, un meccanismo
scatenante innato e un movimento scatenante.
Si tratta di un’evoluzione
del meccanismo del riflesso. I riflessi infatti si limitano a reagire a uno
stimolo, cioè a un elemento attivante esterno, mentre nel caso degli istinti
l’essere vivente si porta dietro una vera e propria sorgente di stimoli. Fra
questi c’è inoltre un programma genetico chiamato comportamento esplorativo che
consiste nella spinta a cercare, provare, indagare, senza uno scopo preciso,
senza una precisa selezione degli stimoli in base ad un bisogno: questo
permette all’organismo di imbattersi in una grande varietà di elementi esterni
in grado di attivare i vari meccanismi scatenanti innati e di aumentare quindi
l’attività e la vitalità.
Per essere ancora più
precisi c’è anche differenza fra bisogno e desiderio.
Si può avere per esempio
bisogno di magiare, ma non si può avere bisogno di una torta alla crema, che
invece si può solo desiderare.
Il bisogno non è
differenziato nell’oggetto, ma solo nella finalità dell’oggetto. Dal punto di
vista della sopravvivenza infatti l’importante è che l’organismo si nutra, non
di cosa si nutre, entro naturalmente i limiti della tolleranza fisica.
Il desiderio è qualcosa che
riguarda invece un momento più avanzato dello sviluppo psichico, dove diventano
significativi elementi secondari come la forma, il colore, il sapore.
Un esempio ovvio è la
differenza fra avere bisogno di un mezzo di locomozione e desiderare una
Ferrari: nel secondo caso accanto al bisogno di spostarsi c’è quello di dare
un’immagine di sé alla guida di una Ferrari, che può evidentemente essere
importante per ragioni narcisistiche o per necessità di rappresentanza o per
chissà che altro ancora.
Per essere ancora più
precisi c’è anche differenza fra emozioni e sensazioni.
Le emozioni sono costituite
da specifici, complessi insiemi di sensazioni caratterizzati
dall’intenzionalità della risposta. Le sensazioni infatti danno informazioni
sul mondo senza implicare una reazione specifica: per esempio se toccando
qualcosa con una mano senti una sensazione di morbidezza, non c’è una cosa
precisa che ti viene da fare. Quando invece senti paura stai avendo delle
informazioni che determinano quel comportamento istintivo complesso e definito
nello scopo di evitare il pericolo che è la fuga: questa è un’emozione.
Le emozioni corrispondono
quindi a meccanismi innati che mettono in moto comportamenti funzionali alla
sopravvivenza, tarati su specifici elementi attivanti e orientati su specifici
scopi: elementi attivanti e scopi che possono essere nel piano del reale oppure
in quello simbolico.
Si può quindi concludere che
il potere del pensiero è relativo nei confronti della vita emotiva: si può
decidere che cosa pensare, ma non che cosa sentire.
ll
potere di vivere qui e ora
di Patrizia Masciari,
arteterapeuta
E' la nostra mente a causare
la maggior parte dei nostri disagi, dei nostri problemi, quindi, partiamo da
questo assunto “che è dentro di noi che dobbiamo cercare”, non nelle altre
persone, non in ciò che chiamiamo “il mondo esterno”.
Ricordiamo che tutto ciò che
in noi e fuori di noi respingiamo, persiste e si moltiplica con grande forza e
intensità, nutrito dalla mente e dai pensieri, ciò che invece accettiamo dentro
di noi e fuori di noi, si dissolve come neve al sole.
E' la nostra mente, con il
suo chiacchiericcio di pensieri veloci e insidiosi come mosche impazzite, che
incessantemente lungo il corso delle nostre giornate, ci precipita in una
costante oscillazione fra il rimorso del passato e la preoccupazione del
futuro.
Ad aggravare la nostra
condizione subentra il fatto che noi ci identifichiamo totalmente con la nostra
mente senza riuscire a gestire pensieri, emozioni, sentimenti, quasi
completamente in balia di essi, mentre in realtà noi siamo esseri ben più
complessi e grandiosi, nella nostra
unicità ed interezza: noi siamo di più della nostra mente e dei suoi pensieri!
Per poter entrare in un
percorso di consapevolezza di noi stessi (consapevolezza del Sé) e affrancare
la nostra vita dalla tirannia dei
pensieri negativi, abbiamo bisogno vitale di far tacere questo falso sé che la
nostra mente ha costruito soprattutto sotto lo sguardo degli altri e di ciò che
pensano di noi(ego).
Cerchiamo, quindi, un’uscita
dal labirinto del dolore psicologico: concentrandoci, focalizzando la nostra
mente stanca ed esaurita come una batteria scarica, sul momento presente, sul
“qui e ora” studiato e proposto dalla
Gestalt, o, come dice E. Tolle, “arrendendosi all'Adesso”. Ma prima ancora di
queste scuole psicologiche, le Sacre Scritture parlano di esercizi volti a far
tacere questo vociare mentale, esercizi che hanno formato i padri del deserto,
il monachesimo di differenti religioni,etc.
Il dottore della Chiesa
Teresa di Avila, ne parla descrivendole come fastidiose mosche che ronzano
costantemente sul nostro capo, alle quali non si può impedire di volare, ma si
deve necessariamente, con grande determinazione, impedire di poggiarsi, pena la
stanchezza mentale e la confusione. Se
ci esercitiamo, poco per volta, ad essere totalmente presenti a ciò che
facciamo, raccoglieremo le energie psichiche, fisiche e spirituali sperperate
fino ad oggi rincorrendo la nostra mente, e ciò ci renderà più sereni, forti,
entusiasti, attivi ma senza strafare, poiché possediamo solamente questo
preciso istante. Non ci appartiene il passato perché ormai è andato e neanche
la memoria più ferrata lo riporta all’oggi, non ci appartiene neanche il
futuro, abbiamo potere solo sul momento presente ed è su quello che dobbiamo
affinare le nostre capacità attentive.
Ma queste cose, non sono
forse state affermate con forza dal Cristo dei vangeli quando diceva “perché vi
affannate per il domani, a ciascun giorno basta la sua pena …”, oppure “… tu ti
sei gettato dietro le spalle il mio passato e tutte le mie colpe …” L’unico
istante che conta, quindi, è esattamente qui e adesso: questo ci consentirebbe
di vivere una vita piena. Chi riesce a vivere l’attimo presente fa esperienza
della piena realizzazione ed è realmente nel proprio Sé più autentico, lontano
dall’ego e dalle sue illusioni, al largo rispetto alle aspettative degli altri
che spesso ci rendono dipendenti affettivamente.
Venendo al mondo ogni essere
umano entra in una angoscia spazio/temporale che lo proietta o nel passato o
nel futuro, lontano dal presente in una perenne schizofrenia allucinatoria. Ma
il tempo è un illusione che va domata: la realtà è solamente nell’istante
presente. La maggior parte di noi, ad esempio, vive la propria giornata
quotidiana totalmente guidata da un orologio: incapaci di domare il tempo,
abbiamo l’illusione che il pensiero possa correre più velocemente. Con il
pensiero, quindi, siamo ovunque eccetto che in noi stessi.
Reale e tangibile è
solamente l’istante che stiamo vivendo, anche se la nostra società ha costruito
una serie di prove documentabili, dette anche tangibili, che dimostrano i fatti
avvenuti ieri, o anni addietro, parimenti si punta tutto sulla pianificazione,
sulla programmazione, nel tentativo disperato di ottenere potere sul futuro, la
realtà è per essenza solo nell’istante presente. Vivere il momento presente,
lungi dall’essere deresponsabilizzazione, o passività nel dimenticare il
domani, ci da la piena consapevolezza di noi, di ciò che ci circonda, delle
relazioni, e ci restituisce un’azione forte, feconda, chiara ed efficace.
Arte
Terapia
di Massimo Rondi
Mi sembra che la famosa foto
di Einstein (qui riprodotta su licenza degli autori e dell’editore, da
"Storie di normale dislessia", di Rossella Grenci e Daniele Zanoni -
Junior D EasyReading - font "ad alta leggibilità" mirato ai DSA
Edizioni Angolo Manzoni 2011):
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/storie-normale-dislessia-15-dislessici-famosi-raccontati-ai-ragazzi
possa essere un commento
alle polemiche.
Un sorriso seppellirà i problemi? L’umorismo
ci salverà? Magari! Ed ecco che l’arte, la letteratura, il racconto in quanto
testo scritto, audio, illustrato, è terapia a condizione, in questo caso, che
sia “accessibile”.
Riassumiamo: all’accusa di
un eccesso di diagnosi di Dislessia nella scuola italiana, dopo la Legge 170,
il professor Giacomo Stella, Fondatore della Associazione Italiana dislessia,
Ordinario di Psicologia clinica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia,
ha pubblicato su diverse testate un
chiarificatore intervento, riportato nei giorni scorsi anche su La Stampa e su
Il Corriere della Sera (qui il link al testo):
http://www.corriere.it/salute/disabilita/11_dicembre_20/troppe-diagnosi-dislessia-replica_b39dd896-2b22-11e1-b7ec-2e901a360d49.shtml.
Commentando tra l’altro: “Se
i dislessici diventano troppi allora la scuola è costretta a cambiare, magari a
introdurre i computer per tutti o ad aggiornare la didattica, o a ripensare ai
criteri di valutazione”.
Come dislessico lieve non
riconosciuto posso dare la mia personale testimonianza.
Ciò che mi salvò, ai miei
tempi fu l’acutezza di una maestra intelligente e attenta che identificò il mio
problema e adottò – lo comprendo ora – maniere dispensative e compensative ante
litteram. Ciò mi permise di mettermi in linea con i miei compagni, pur facendo
il doppio della fatica.
Ma so che moltissimi altri
dislessici, seppure nati parecchi anni dopo di me, non hanno incontrato uguale lungimiranza: penso a Daniele Zanoni,
che si è sentito dire da un’insegnante: “Non combinerai mai nulla”, e invece si
è laureato in fisica grazie alla sua grande cocciutaggine.
Ma perché dobbiamo ottenere
con fatica ciò che è un nostro diritto?
Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di
condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana…(Costituzione della
Repubblica Italiana, Principi fondamentali, Articolo 2). Questa è la premessa
della collana JUNIOR D di Edizioni Angolo Manzoni, per dire che tutti i bambini
hanno diritto alla “lettura”. Se i libri in commercio non sono adeguati, si
facciano libri ergonomici… Ed è nel 2010
che viene utilizzato dalla casa editrice l’innovativo font mirato ai DSA, con
queste caratteristiche:
http://www.angolomanzoni.it/pdf/carattere_easyreading_presentazione.pdf
valutate positivamente da
Rossella Grenci:
http://www.rossellagrenci.com/2012/01/caratteri-di-stampa-per-i-dislessici/
Uno degli scopi della Legge
n.170 varata nell’ottobre 2010 - “Nuove norme in materia di disturbi specifici
di apprendimento” - riconoscendo l’esistenza dei Disturbi Specifici di
Apprendimento, è permettere l’adozione nella scuola di metodi e strumenti
dispensativi e compensativi.
Oltre che all’Associazione
Italiana Dislessia, ricordata dal Professor Stella, il
ringraziamento va a Vittoria Franco, a Franco Asciutti e a tutti gli
altri parlamentari che hanno promosso la Legge; a Laura Ceccon, “mamma di un
bambino dislessico” e tutti quelli che l’hanno appoggiata nel pretenderne la
promulgazione; e tutte le associazioni,
i gruppi, enti e circoli di esperti (Neuro Psichiatra Infantile,
Psicologo, Logopedista, Pedagogista...),
educatori, insegnanti e genitori
che sono sorti col proposito di far sì che la scuola sia a misura di
dislessici, anzi che la dislessia sia la misura della scuola.
E non fermiamoci qui!